Nell’aprile del 2021 l’album Weedsconsin aveva puntato i riflettori sui Bongzilla, tornati sulle scene dopo una pausa di ben sedici anni dalla pubblicazione di Amerijuanican, ma le imposizioni legate alla pandemia hanno di fatto impedito la possibilità di festeggiare l’occasione adeguatamente con un tour celebrativo.
Il terzetto statunitense non si è comunque perso d’animo e, un anno più tardi, eccoli sullo spartano – ma funzionale – palco del Bunker di Torino in compagnia dei Tons e pronti a riversare il loro fumoso stoner/doom sul pubblico presente.
I Tons hanno il compito di portare il pubblico del Bunker alla giusta temperatura e di tenere alta la bandiera dello stoner-doom italiano, riuscendoci più che egregiamente. Pur non essendo tra i più originali sulla piazza, il quartetto è protagonista di un’esibizione muscolare e, facendo fede al proprio nome, pesantissima. Il loro è il classico suono infarcito di riff grassi, squadrati e iper amplificati presi dal rock e dal blues sudista americano, ma imbastarditi da un’attitudine rock n’ roll a dalla pesantezza del metal e conditi da una voce in scream rantolate, da pattern di batteria tagliati con l’accetta e dalla fortissima pacca sul rullante che conferisce alla musica una notevole sensazione di solidità. Gli ingredienti della ricetta sono certamente semplici, tuttavia in questo caso non c’è spazio per le raffinatezze, perché lo stoner-doom è un genere in cui l’impeto e l’interpretazione viscerale e fisica fanno la differenza. Come band spalla in attesa del main event, i Tons non sfigurano affatto, al contrario si sono rivelati una bella sorpresa dimostrando, per l’ennesima volta, che l’underground nostrano non ha nulla da temere se confrontato con il più blasonato estero. Bravi.
Bongzilla è il loro nome, la legalizzazione della cannabis la loro missione. Il loro stoner/doom è dunque un mezzo, non il fine ed è suonato con la attitude grezza consona al genere. Il power trio americano segue tutti i crismi del genere e, come da manuale, sono dediti al culto del riff dall’accordatura ribassata di stampo sabbathiano dalla distorsione satura mischiato ad arte a lunghe divagazioni strumentali desert rock in cui giocano con effetti lanciandosi in jam psichedeliche. Il concerto procede senza fronzoli e i Bongzilla suonano spiritati – e decisamente in botta da THC, per ammissione stessa del frontman e bassista- un pezzo dietro l’altro lasciando parlare solamente la musica. La presenza scenica, così come la tenuta del palco è ridotta all’osso, con solo i tre musicisti sul palco contornati dal muro degli amplificatori e fasci di luce verde disposti in modo da formare una stilizzata foglia di marijuana. Il muro di suono imbastito dai tre è intensissimo e coinvolge il pubblico sin dalle prime note, spingendolo a pogare incessantemente, a fare stage diving e crowdsurfing, creando così una forte sinergia ed empatia tra i musicisti e gli astanti accorsi stasera. Dopo due anni di stop forzato dalla pandemia è una gioia tornare alla normalità e assistere ad un concerto così fisico, drogato, sudato e a suo modo intimo, in cui le uniche pause concesse sono solo tra una canzone e l’altra per pagare il giusto tributo di applausi ai Bongzilla.
Foto in evidenza: Invisible Oranges
A cura di Stefano Paparesta