L’odio avrà la meglio, se non lottiamo per la pace. Anche di questo parla A Song Called Hate, documentario diretto da Anna Hildur Hildibrandsdóttir che racconta la discussa partecipazione della band islandese Hatari all’edizione 2019 di Eurovision in Israele. La proiezione al cinema Massimo nel ciclo UniVerso per Eurovision, in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino, è stata un’occasione privilegiata per riflettere sul rapporto tra l’arte e la politica, nonché per consegnare nelle mani della regista islandese il premio per il miglior documentario della 7a edizione del festival Seeyousound – consegna posticipata a causa del covid –.
“Hatari” in islandese significa odio, ed è da questo odio che nasce il progetto artistico della band, tanto musicale quanto performativo. Fondata dai cugini Klemens (synth, chitarra) e Matthías (lead singer), Hatari sfrutta sonorità grezze che fondono techno, synthpunk e metal, unendole a delle ottime capacità canore e ad un’estetica che si rifà tanto il gothic quanto al BDSM. L’obiettivo della band è buttare fuori tutto il loro astio verso la società in cui vivono, ponendo messaggi politici al centro dei loro testi, fortemente cupi, nichilisti e provocatori. Si definiscono un gruppo di performance artistica anticapitalista. E hanno “cattive” intenzioni.
L’odio avrà la meglio, se non lottiamo per la pace
Nel 2019 gli Hatari vincono il Söngvakeppenin, la massima competizione canora islandese con il pezzo “Hatrið mun sigra”, “L’odio avrà la meglio”, garantendosi il biglietto per Eurovision, quell’anno a Tel Aviv. La band si è sempre schierata al fianco del popolo palestinese, parlando apertamente di “apartheid” esercitata da parte di Israele, e non sa se partecipare. Si noti che l’Islanda è l’unico paese dell’Europa Occidentale, insieme alla Svezia, ad aver riconosciuto politicamente lo Stato della Palestina. Alla fine gli Hatari decidono di andare a Tel Aviv in maniera critica, provocatoria, sfruttando la kermesse per inviare al mondo un messaggio politico.
Per il suo statuto, Eurovision si definisce come una competizione che fa dell’apoliticità il suo valore fondante, da rispettare in canzoni, messaggi e in tutti i luoghi ufficiali dell’evento. Tuttavia, il film ci fa vedere come tutto sia politico, dal più banale acquisto al supermercato fino alle opere d’arte, figurarsi un evento internazionale seguito da 200 milioni di persone. Il cammino degli Hatari, raccontato dall’ottimo documentario (eccellenti la fotografia e la regia) si presenta dunque come una stupenda occasione per andare a “infastidire” il sistema proprio nella tana del lupo, ma non si ferma qui: la band coinvolge anche vari artisti palestinesi e israeliani (schierati contro le politiche del proprio Paese) per vari progetti di collaborazione. Uno su tutti Bashar Murad, cantante palestinese e attivista per i diritti LGBTQ+ con il quale gli Hatari realizzano la canzone “Klefi/صامد”, (“Klefi/Samed”), fortemente politica, particolarissimo esperimento di unione tra l’islandese e l’arabo.
Chiunque può essere un grande artista, ma ben pochi sono gli artisti con grandi valori
Tutti, dai detrattori ai sostenitori (tra cui vari movimenti palestinesi) aspettano la mossa degli Hatari. Il documentario indaga efficacemente quanto sia complesso giungere ad un gesto provocatorio in un contesto di tale portata: la band infatti vaglia varie ipotesi, più o meno estreme, scontrandosi con il problema di dover raggiungere perlomeno la finale senza essere squalificata, il che vanificherebbe tutti gli sforzi. In finale, arriva il momento tanto atteso: a votazione conclusa, il gruppo mostra in diretta internazionale le bandiere della Palestina. Foto e video rimbalzano istantaneamente in tutto il mondo, gli artisti mettono in crisi la propria carriera e la propria vita, ricevendo numerose minacce di morte. Dichiareranno che ne è valsa la pena. Un poeta palestinese intervistato, Ahmad Yacob, afferma che chiunque può essere un grande artista, ma che ben pochi sono gli artisti con grandi valori. Ragionevolmente, possiamo inserire gli Hatari tra questi.
All’apertura di un evento internazionale quale l’edizione 2022 dell’Eurovision Song Contest, è necessario riflettere ancora una volta su quali siano gli scopi dell’arte. Come studenti, intellettuali ed artisti, non possiamo dimenticare che vi è senza dubbio quello di mandare un messaggio, di influenzare in qualche maniera la vita delle persone, per renderle più consapevoli o per migliorarne l’esistenza. L’arte, tuttavia, non deve essere né necessariamente impegnata, né necessariamente apolitica. Semplicemente libera, per chiunque. Che dunque il palco di Torino possa essere l’occasione per diffondere nel mondo messaggi universali di amore, pace e speranza.
A cura di Tommaso Sabatini
Immagine in evidenza: https://www.facebook.com/asongcalledhate/