L’heavy metal è il genere musicale, che per sua natura intrinseca, vive grazie alla fusione di tre elementi irrinunciabili: 1) la potenza e l’orecchiabilità del riff, che deve essere incisivo e pesante al punto giusto seppur relativamente semplice da memorizzare; 2) sulla cantabilità delle linee vocali e l’interpretazione del cantante; 3) sui ritmi sostenuti e possibilmente veloci delle ritmiche al fine di donare impeto e irruenza alla musica.
Ecco, ora prendete questi tre aspetti e metteteli da parte, anzi dimenticateli proprio. Senjutsu infatti non è nulla di tutto questo per nessuno degli ottanta, pachidermici, minuti nei quali si dilunga, indugiando oltremodo su una formula di scrittura sempre più scricchiolante e traballante, nonché conferma di una tendenza ad una certa ripetitività di fondo che gli Iron Maiden si portano dietro almeno dai tempi di A Matter of Life and Death.Prevalgono infatti tempi perlopiù lenti e dilatati seguiti a ruota da un riffing a tre chitarre che mai come prima d’ora in questo evitano di proporre riff ed armonizzazioni vincenti e concise – aspetto in cui la band inglese era assolutamente maestra – prediligendo al contrario lunghe sezioni arpeggiate a inizio brano facenti da preludio ai crescendo d’intensità in ostinato. Buona parte dei pezzi contenuti in Senjutsu procede col pilota automatico reiterando questa modalità di scrittura in una continua ed impercettibile variazione sul tema che si ripete all’infinito, giocando di tanto in tanto la carta dell’autocitazione con evidenti rimandi a Dance of Death, Somewhere in Time, Virtual XI e Seventh Son of a Seventh Son. Detta così sembrerebbe l’ennesimo, conclamato caso di album riciclato ed effettivamente la sensazione di deja-vù fa capolino qua e là durante l’ascolto.
Eppure, nonostante i difetti, i conti non tornano. Troppo semplice bollare Senjutsu come l’ennesimo delirio pseudo progressive ridondante di Steve Harris bocciando tutto senza appello. Infatti questo doppio album, esattamente come per il precedente The Book of Souls, tende a crescere esponenzialmente con gli ascolti differenziandosi però da quest’ultimo per il fatto che i pezzi nel complesso iniziano a decollare nel momento in cui si tengono in considerazione due aspetti. Il primo è immaginare le stesse canzoni eseguite dal vivo, nell’habitat naturale degli Iron Maiden, là dove i sei ultrasessantenni vincono per manifesta superiorità nel saper far scatenare con le loro melodie folle oceaniche. Senjutsu è infatti pieno zeppo di questi ammiccamenti melodici, che però vanno decifrati rispetto ai classici a presa rapida alla The Trooper. Il secondo aspetto focale è senza dubbio la volontà di mettersi in gioco da parte dei Maiden seppur in una veste più matura e decisamente meno irruenta rispetto ai tempi d’oro degli anni ottanta. Bruce Dickinson ad esempio si è egregiamente reinventato sfruttando al meglio l’espressività del proprio timbro medio basso, evitando di affaticarsi inutilmente con gli acuti come in The Book of Souls e, allo stesso tempo a livello strumentale la band si è definitivamente assestata sui mid tempos dall’atmosfera epica, ormai conscia del fatto di non poter caricare a testa bassa. I pezzi migliori, se proprio si volesse procedere con un ascolto a campione, sono Lost in a Lost Word, Days of a Future Past, l’elegantissima ed emozionante Darkest Hour, Death of the Celts, Hell on Hearth. Nel complesso dunque ci si può ritenere soddisfatti, premettendo però che bisogna approcciarsi a questi Iron Maiden con cognizione di causa.