Venerdì 24 novembre AlbertoBianco ha presentato all’Hiroshima Mon Amour il suo nuovo album Certo che sto bene. L’album – registrato in presa diretta a Formentera in una settimana, tra le onde del mare e con la collaborazione di Margherita Vicario e Federico Dragogna dei Ministri – rispetta in pieno lo stile cantautorale dell’artista torinese, che scava in profondità con i testi pur mantenendo un ritmo ballabile ed orecchiabile.
Il pubblico torinese che ha assistito alla prima data del tour non è di certo rimasto deluso. Un live denso e suonato. Sì, suonato è la parola che meglio riassume al meglio il tutto. Bianco sale sul palco assieme alla sua band, imbracciando una chitarra semiacustica, che sarà la sua fedele compagna durante l’ora e mezza di set. Si parte con “Certo che sto bene”, la title track che strizza l’occhio allo stile del duo Colapesce Dimartino. Un paio di brani e arriva quello più famoso del cantautore, “Filo d’erba”, che il pubblico intona all’unisono.
Il clima all’interno del locale è disteso e familiare, la band si diverte e il bassista scherza con Bianco: “Non ti prendono a Sanremo, perché fai ancora gli assoli”, tra le risate generali. Oltre che i brani del nuovo album, il cantautore suona anche alcuni dei brani simbolo della sua carriera, come “Mela” – il suo featuring con Levante –, “Corri Corri” e “Raccontami”. L’ultimo brano in scaletta è “Stelle di giorno”, ma non è ancora tempo di congedare il pubblico. A fine concerto, infatti, il cantautore scambia qualche chiacchiera con i fan che si avvicinano al banchetto del merchandising per portare a casa un ricordo fisico della serata, tra vinili, cd e magliette.
Certo che sto bene dal vivo prende vita e la voce del cantautore appare identica alla versione registrata. In Bianco si percepisce quella dose di autenticità che spesso nella musica odierna manca, tra classifiche e numeri di dischi venduti. La scena musicale torinese è viva e ha tanto da raccontare: Alberto Bianco ne è la prova.
Un nuovo album porta con sé una buona dose di pressione e dei fan da convincere. Lo sa bene Motta, che ha iniziato il tour nei club italiani per presentare l’ultimo lavoro La musica è finita, uscito lo scorso ottobre. Il cantautore toscano ha voluto esprimersi, ancora una volta, nella sua dimensione preferita: il live. Venerdì 10 novembre un Hiroshima Mon Amour sold out lo ha accolto con grande affetto e curiosità.
Il palco si presenta ricco di strumenti, tra synth, basso, chitarre elettriche e acustiche. Lo sfondo è un pannello nero con una grande “M” stilizzata e graffiata. Motta sale sul palco accompagnato dalla sua band: Giorgio Maria Condemi alle chitarre, Francesco Chimenti al basso e al violoncello, Davide Savarese alla batteria e la grande novità di questo tour, ovvero Whitemary ai synth, che riassume al meglio alla sperimentazione elettronica ricercata in La musica è finita.
La scaletta si apre con due brani del nuovo album: un’intima versione al piano di “Anime perse” e successivamente l’energetica “La musica è finita”. Una dinamica di suoni e di emozioni fa da fil rouge al concerto, che risulta un continuo alternarsi di momenti emotivi ed energetici. Motta sul palco si sente a suo agio e si esprime liberamente: salta, si inginocchia, scuote la chioma riccia, incita il pubblico a cantare più forte. In scaletta non mancano alcuni dei brani più apprezzati dei fan, come “Del tempo che passa la felicità” e “Sei bella davvero”, dedicata ad una ragazza transgender. L’ospite della serata è Ginevra che, assieme al cantautore, intona “Maledetta voglia di felicità”, uno dei featuring all’interno del disco.
Motta mostra le sue abilità ritmiche ai tamburi nell’esecuzione di tre brani: “Se continuiamo a correre” – suonata in crescendo –, “Roma Stasera” – in una rabbiosa versione rock – e “Ed è quasi come essere felice”. Dopo aver dato il tutto per tutto, il cantautore si prende l’applauso del pubblico e ringrazia la sua band, annunciando l’ultimo brano in scaletta: “Quello che ancora non c’è”.
Ancora una volta, il cantautore toscano dimostra che la dimensione live è quella che gli si addice meglio. Al contrario di quanto suggerisce il titolo del suo ultimo album, la musica per Motta non finirà finché ad ogni concerto ci metterà così tanta anima e passione. Chi era all’Hiroshima in quella piovosa serata può confermare.
Per la seconda volta sul palco dell’Hiroshima Mon Amour per il Torino Jazz Festival, Hamid Drake si presenta con un omaggio ad Alice Coltrane, grande musicista americana del jazz spesso nascosta nell’ombra del compagno John Coltrane. Per eliminare il senso di vuoto lasciato dalla morte del marito, Alice trova conforto nella musica e nella spiritualità. Convertitasi all’induismo, cambia il suo nome in Turiyasangitanda. “Turiya” deriva proprio dalla filosofia indù e denota lo stato supremo di coscienza pura. Esso è anche il nome del progetto portato in scena all’Hiroshima in una data, quella del 25 aprile, in cui un messaggio di pace, libertà e consapevolezza hanno un significato ancora più profondo.
«We are doing music of spirit and inspiration. Turiya represents the freedom of expression and freedom of consciousness. We are all Turiya, which is the highest state of consciousness». –
A dirlo è proprio Hamid Drake, uno dei più importanti batteristi del jazz contemporaneo. Con una carriera costellata da grandi collaborazioni, tra cui quella con Don Cherry, Drake è diventato un maestro nel fondere tra loro influenze musicali afro-cubane, indiane e africane. Oggi si esibisce con gruppi jazz europei suonando non solo la batteria ma anche il tamburo a cornice, le tabla e altre percussioni a mano.
In “Turiya” spoken words, poesia, musica, gestualità, culture differenti e avanguardie si uniscono per creare uno spettacolo che va al di là di ogni limite, diventando un veicolo per comunicare una profonda spiritualità. Sul palco c’è anche la danzatrice Ngoho Ange che, con la sua danza libera e la sua gestualità pronunciata cattura gli spettatori. Come impossessata da uno spirito (forse della stessa Alice Coltrane?), sembra quasi catapultarsi in uno stato di trance. Con i suoi movimenti ora fluidi, ora rigidi e scattanti, lo sguardo fisso e le espressioni facciali, Ange interiorizza i sentimenti espressi dalla musica e li proietta al di fuori del proprio corpo facendoli arrivare dritti al pubblico. Ad ogni gesto il corpo della danzatrice sembra prendere sempre di più consapevolezza della sua esistenza: sembrano esplicitare visivamente i contenuti musicali e mistici che hanno caratterizzato la vita di Alice Coltrane. Ngoho Ange ha anche portato in scena la poesia attraverso un uso particolare della voce, sperimentando vari modi di emissione del suono a seconda della portata delle emozioni e del significato delle parole. È proprio qui che viene messo in risalto in grande ruolo che hanno avuto le avanguardie in questo progetto: il canto, che si riduce a pura declamazione enfatica, viene unito a versi emessi dall’apparato fonatorio, ricordando le sperimentazioni novecentesche di Luciano Berio. Elemento sostanziale di tutta questa performance è proprio il tema della ripetizione di parole, che restano incapsulate e immutate dal punto di vista letterale; anche la musica risulta costellata di cellule ritmiche ripetitive che permettono come di ricreare lo stato di estasi.
Pochi strumenti, ma differenti tra loro come l’organo Hammond, i sintetizzatori, la tromba, il contrabbasso, le tastiere e la batteria, riescono a creare una grande massa sonora che riempie lo spazio della sala. Per la maggior parte dello spettacolo è evidente il contrappunto tra la danza e la musica strumentale, ma anche tra gli strumenti stessi. Un vero e proprio concerto, nel senso letterale del termine: nonostante i suoni prodotti risultino indipendenti tra loro, la sonorità ricreata è uniforme. I musicisti sul palco si divertono, si scambiano sguardi complici e ballano. Assieme a loro il pubblico ondeggia sulle proprie gambe lasciandosi trasportare dal groove e dal ritmo della musica.
Ospite della serata Gianluca Petrella, fra i più apprezzati trombonisti a livello internazionale che ha collaborato con artisti di fama internazionale incidendo musica di diverso tipo, dalla sperimentazione al mainstream, dal jazz alla musica elettronica e techno. Petrella entra sul palco timidamente e dopo scherzi con Drake perché «He feels he is not dressed properly», sin dalla prima nota lascia tutti a bocca aperta. Integrato perfettamente nel gruppo la musica si fa sempre più energica e potente.
Il pubblico a gran voce, tra fischi e applausi, richiede un bis. Una lunga introduzione pianistica con lunghe scale ascendenti e discendenti, un po’orientali, fa da ponte per l’ingresso in scena degli altri strumentisti che cominciano a suonare note che poco a poco si discostano dalla melodia del piano. Inizialmente il brano risulta cantabile, poi l’ingresso della batteria dà energia, introducendo una pulsazione che richiama le sonorità del blues e quelle afro-cubane. La linea del piano talvolta sembra ricordare attraverso una piccola cellula melodica la canzone Sound of Silence di Simon & Garfunkel. Ancora una volta al centro del brano la ripetizione, udibile sia nella voce di Ange che nella linea strumentale.
Unendo avanguardie e musica afroamericana, Turiya si è rivelato un miscuglio molto ben riuscito di jazz e blues, classicità e avanguardia energia e calma.
Galeffi potrebbe essere descritto come un inguaribile romantico, e l’uscita dell’album Belvedere conferma questa ipotesi. I live di cui è protagonista in questi giorni sembrano però aggiungere qualche tassello in più. Da dicembre il cantautore romano è infatti impegnato nel suo Belvedere Tour, che con ben tre date sold out sta incantando un pubblico curioso di vederlo esibirsi dal vivo dopo tre anni dal suo ultimo concerto. Tra le date in programma, quella del 19 gennaio all’Hiroshima Mon Amour sembra essere molto attesa da Galeffi stesso, che nel corso della serata ripete diverse volte di essere contento di trovarsi a contatto con la folla torinese.
Già prima del concerto è facile immaginare come si presenterà sul palco: il suo stile è un tratto caratterizzante del suo personaggio. Sicuramente avrà l’immancabile cappellino e quel look un po’ vintage e un po’ romantico, un po’ da bacheca di Pinterest. E infatti è proprio così.
Il cantautore prova a muoversi a ritmo di musica ma risulta un po’ impacciato; anche dopo aver rotto il ghiaccio con le prime canzoni Galeffi continua con movenze che potrebbero risultare buffe e quasi goffe, ma che rientrano perfettamente nella personalità di un ragazzo che diventa bordeaux appena gli vengono fatti dei complimenti. Tutto questo lo si ritrova anche nell’ultimo album, in cui si nota la ricerca della bellezza, l’introspezione e la profondità, ma soprattutto il salto di qualità rispetto alle produzioni precedenti.
Anche il live è caratterizzato da queste sfumature. A eccezione di qualche canzone riarrangiata appositamente in chiave rock grazie alla band che lo sta accompagnando in queste date (formata da Luigi Winkler alla chitarra, Matteo Cantagalli, fratello di Galeffi a tastiera e chitarra, Fabio Grande alla chitarra, basso e cori e Andrea Palmeri alla batteria), ascoltarlo in alcuni brani è come ricevere una carezza; in altri sembra essere avvolti in un’enorme coperta di pile mentre fuori fa freddo. Tutto è accompagnato da quella vena malinconica che rende l’intera esecuzione ancora più calorosa e accogliente, come quando entri in una stanza con il fuoco scoppiettante in un caminetto di pietra.
Tra la notifica del BeReal da scattare, la sua richiesta di ballare un valzer sulle note di “Due Girasoli” e qualche coro in dialetto romano per omaggiare la sua provenienza, il concerto si è tinto dei colori bluastri e rossastri che – oltre a riprendere la copertina del disco – si armonizzano accuratamente nel contesto di comfort che pochi artisti riescono a ricreare. E Galeffi ci riesce in modo impeccabile.
Si può chiedere al proprio pubblico imbambolato e immobile di applaudire senza cadere nel ridicolo? Se sei la PFM, sì. E se stai girando l’Italia – a 70 anni suonati – per festeggiare cinquant’anni di carriera suonando ininterrottamente per due ore, allora non solo ti è concesso, ma addirittura dovuto.
Il 16 novembre il Teatro Colosseo di Torino ha ospitato una tappa del tour “PFM 1972-2022” con cui la band progressive celebra i successi nazionali e transnazionali e i concerti, che superano ormai le 6000 date nell’arco della loro longeva carriera. A riflettere questa longevità ci pensa il pubblico in sala che, a parte per pochissimi giovani che abbassano drasticamente la media, se non ha l’età dei musicisti, manca poco.
L’apertura del concerto è affidata ai Barock Project, band che vuole unire la musica classica a rock e jazz. I ragazzi si muovono bene sul palco, dimostrano una tecnica notevole e uno stile molto simile a quello della Premiata Forneria con assoli di tastiera e cambi di tempo ben studiati. Il cantante, prima di lasciare il palco, dichiara la band come progressive e il signore seduto davanti a me si lamenta del fatto che ormai si dichiarino tutti prog. Se fosse stato più giovane avrebbe però convenuto che in un presente in cui sta spopolando l’indie, la band rappresenta una validissima alternativa nel panorama musicale giovanile.
Il teatro ritorna completamente al buio. In un silenzio pieno di fermento esplode la musica. Il concerto vuole fare un viaggio nel tempo partendo dai brani più recenti per andare indietro ai grandi classici della band. E infatti una delle canzoni più attese è “Impressioni di Settembre”, che si scaglia nel teatro come un coltello che squarcia il pubblico, ma anche come un medicamento che lenisce la ferita appena inflitta. Fanno jazz e improvvisano: a detta loro è grazie all’improvvisazione se sono ancora insieme. Suonano Prokof’ev e Rossini «con un piccolo aiuto, come l’avrebbero scritta gli autori se avessero avuto la PFM in orchestra». Lo fanno magistralmente. Dedicano uno special esplosivo a De André con cui hanno collaborato nei celebri due album dal vivo.
Franz Di Cioccio si presenta con l’immancabile bandana nera in testa e le coppie di bacchette incastrate avanti e dietro la cintura. Incarna la libertà. Randagio (il suo soprannome) sguizza sul palco: canta, balla, suona la batteria con una potenza impensabile per un settantaseienne. È lui a dominare la scena insieme a Patrick Dijvas, molto più statico. Il bassista presenta i brani con il suo accento francese quando il collega si sposta alla batteria, ma lascia parlare per lo più il suo strumento. I due “giovincelli” fanno parte della formazione originale. Con loro un altro storico componente: Lucio “Violino” Fabbri, subentrato otto anni dopo la nascita della band, che suona eccentricamente il violino con l’aggiunta di vari effetti, tra cui il wah wah, pur mantenendo una compostezza inalterabile. Sono loro a mandare avanti la baracca e, nonostante la formazione sia composta da musicisti di altissimo livello, ognuno di loro potrebbe suonare da solo garantendo uno show degno di essere chiamato tale.
Si sente la mancanza di alcuni brani celebri come “Maestro della voce” o “Chi ha paura della notte”, che il pubblico continua a richiedere. Ma al gruppo che ha scritto la storia del progressive facciamo passare anche questa.
Una standing ovation, il tempo di una foto con il pubblico e il teatro cade nuovamente in un silenzio contemplativo con la platea che si svuota lentamente: è l’unica cosa che si può fare dopo un concerto simile.
Parole. Nei testi di Emma Nolde le parole sono tantissime e ne servirebbero altrettante per raccontare la seconda data del tour di Dormi dell’11 novembre all’Hiroshima Mon Amour di Torino. O forse non sono affatto necessarie, perché di fronte al suo talento c’è poco da dire e tanto da goderne.
Nell’annunciare il tour, la cantante ci aveva avvertiti – “ci divertiremo veramente tanto, piangeremo veramente tanto” –, la perfetta sintesi di uno spettacolo che ha mantenuto un riuscitissimo equilibrio tra la dimensione intima e quella corale. Un dualismo che non a caso si riflette tanto nelle tematiche dei brani in scaletta per l’occasione quanto nella resa sonora del suo ultimo lavoro, co-prodotto da Francesco Motta e uscito il 30 settembre a due anni dal disco d’esordio di Emma Nolde Toccaterra.
Sono le 21.00, i primissimi volti arrossati per il freddo cominciano a varcare la soglia del tempio. L’attesa di Emma Nolde è scandita dalla voce eterea di Thom Yorke. C’è chi ne approfitta per scambiarsi consigli sui tempi di esposizione più adatti per documentare fotograficamente la serata. Intorno alle 22.30 le luci si abbassano, il pubblico è consistente.
Pantaloni cargo, giacca nera e anfibi neri, sin dal primo momento è chiaro come la presenza scenica di Emma sia ipnotica. Accompagnata da Marco Martinelli alla batteria, Andrea Beninati al violoncello e Francesco Panconesi al sassofono, Emma si siede alla tastiera e il concerto si apre sulle note di “Fuoco coperto”, brano che fa da introduzione al disco. La voce pulitissima è accompagnata da una melodia minimale che lentamente avanza in un crescendo, scaldando l’atmosfera.
Abbandonando momentaneamente la tastiera Emma imbraccia la chitarra – la quantità di strumenti tra cui si destreggia abilmente è notevole – per regalare al pubblico alcuni tra i suoi ultimi pezzi – “Storia di un bacio”, “CQVT”, “Dormi” – che in chiave live risultano particolarmente riusciti.
Tanto dai testi delle sue canzoni quanto dagli scambi di battute con il pubblico emerge di Emma quella rara capacità che accomuna i bravi cantautori di trovare parole nuove per raccontare e raccontarsi, capacità notevole considerata la giovane età. In diverse occasioni si rivolge direttamente agli astanti e in particolare a coloro “che pensano troppo”, invitando a farsi cullare dalla musica e a lasciarsi andare per tutta la durata dello spettacolo. Brani in scaletta come “Voci Stonate”, “Sfiorare” e “Berlino” risultano particolarmente efficaci nel creare un dialogo esplosivo con il pubblico fatto di botta e risposta a suon di “OH OH OH!”.
L’esperienza del recente tour estivo ha dato i suoi frutti, Emma sul palco è sicura di sé. Salta e invita il pubblico a fare altrettanto, ondeggia i suoi lunghissimi capelli e si diletta con mossette ironiche sul brano “Respiro”.
Se fino a questo punto i pezzi più malinconici erano controbilanciati da quelli più esplosivi, risulta difficile trattenere la lacrimuccia su “La stessa parte della luna”, brano eseguito in chiusura del concerto in un clima di intimo raccoglimento. Durante l’applauso finale Emma si prende un istante per guardare il suo pubblico per poi lasciare il palco dopo un sincero “vi voglio bene ragazzi” pronunciato al microfono.
Il tempo per recuperare le giacche e commentare lo spettacolo appena conclusosi e ritroviamo Emma al banchetto del merchandise che scambia due parole con i più affezionati, mentre si destreggia tra le t-shirt alla ricerca di una “M” perché le “L” sono finite. Il live conferma che di Emma Nolde, e della sua musica, ne sentiremo tanto parlare.
Una delle frasi che più riecheggiano tratte dal film Into the Wild recita: «Chiama le cose con il loro vero nome». Eppure diventa difficile definire quello che è successo lo scorso 21 ottobre a Hiroshima Mon Amour: non un semplice concerto, non soltanto una cover band di Eddie Vedder.
Sui social e sulle locandine Magic Bus viene presentato come uno spettacolo itinerante ispirato al film e alla produzione solista di Eddie Vedder, compositore della colonna sonora del film. La giovanissima produzione dell’agenzia creativa Popcorn Gang fa la sua seconda tappa a Torino di fronte a un pubblico amante del film che rimane seduto a terra per buona parte del concerto. L’atmosfera sembra essere quella di una serata tranquilla tra amici.
La sala è illuminata di rosso, riprendendo le grafiche della locandina e lo stile dei filmati. Il tocco in più è dato da una serie di video inediti – che comprendono spezzoni del film, letture tratte dal libro, animazioni e brevi video-testimonianze di un ragazzo che in Alaska, a vedere il magic bus, ci è andato davvero – proiettati alle spalle della band per tutto il concerto. Ad accrescere il clima intimo e l’atmosfera avvolgente in cui si ha la sensazione di totale coesione ci pensa la scelta di iniziare il concerto con dei brani eseguiti solo dal cantante (Davide Genco) e dal suo ukulele in una sala semibuia. Si aggiunge poi il chitarrista (Marco Settanni) che, tra le varie canzoni, esegue la celebre “Society” e infine, il bassista (Marco Chiodi) e il batterista (Enrico Pirola) che danno alla serata una svolta più rock.
L’esecuzione integrale della colonna sonora è intervallata da una scelta filologica di brani aventi a che fare con Eddie Vedder e con i concetti capisaldi del film: la libertà e il viaggio. I brani selezionati spaziano tra cover dei Beatles, dei Pearl Jam, e “Follow The Sun” suonata con chitarra e armonica, sottolineando quell’immaginario cinematografico del viaggiatore solitario che si tiene compagnia con la musica. D’altra parte, il patto non scritto stipulato tra la band e il pubblico è quello di voler fuggire per una serata da «questo mondo così triste».
Esattamente come accade in un viaggio appena iniziato, in alcuni momenti si percepisce la necessità di un motore che deve carburare, complice il fatto che lo spettacolo sia alle prime esecuzioni e abbia bisogno di essere ben collaudato. Nonostante ciò, il prodotto confezionato è piacevole.
La serata si conclude in modo tranquillo e anche se le temperature sono tutt’altro che glaciali come in Alaska, per tutto il concerto sembra di essere nel vero Magic bus, con Alexander Supertamp a ripetersi che «La felicità è reale solo se condivisa».
Una cosa è certa: Willie Peyote è uno degli artisti torinesi più amati dai suoi concittadini. Venerdì 8 luglio il rapper e cantautore torinese ha avuto finalmente l’occasione di “tornare a casa” — precisamente nella cornice del Flowers Festival a Collegno —, proponendo un grande live per tutti i suoi fan che lo attendevano da tempo.
Ad aprire il concerto ci ha pensato Michael Sorriso, rapper classe ’90 originario proprio di Collegno, che negli ultimi anni è riuscito a farsi notare e apprezzare da vari artisti della scena torinese e non. A suon di rime ha riscaldato il pubblico presente, preparandolo al meglio.
Dopo un’ora di live, tocca al protagonista della serata. Sono le 22:30, il palco è ancora in preparazione ma la gente urla e reclama Peyote sul palco. Un’esplosione di luci e la voce di Michela Giraud aprono il concerto e il rapper finalmente fa la sua comparsa cantando “Fare schifo”, brano che ha anticipato l’uscita dell’ultimo album Pornostalgia (2022) e che vede proprio una collaborazione con la nota comica; è un brano che ricorda il bello di non essere perfetti, soprattutto quando la ricerca della perfezione comporta un perenne senso di insoddisfazione.
Da subito il pubblico dimostra di essere preparato ad intonare a memoria ogni singola canzone della scaletta. Ad ogni nuovo brano un coro si alza dal pubblico, creando un’atmosfera di condivisione veramente unica. Questa sensazione rimane presente per la durata di tutto il concerto, che vede susseguirsi brani tratti da Pornostalgia ma anche pietre miliari della carriera del rapper come “Willie Pooh”, “Porta Palazzo” e “Semaforo”. Non sono mancati i momenti di denuncia sociale, con riferimento a tematiche da sempre trattate anche nelle canzoni di Willie Peyote, come il razzismo e la questione climatica. Tante anche le citazioni nel corso del concerto, dagli Arctic Monkeys a Dr. Dre, sapientemente utilizzate come apripista ad alcuni dei suoi singoli.
Anche questa volta Willie Peyote ha dimostrato di rimanere coerente con la cifra stilistica che lo ha da sempre contraddistinto: è raro, infatti, che un rapper si faccia accompagnare da una band —in questo caso dalla All Done, band formata da Luca Romeo (basso), Dario Panza (batteria), Daniel Bestonzo (tastiere synth), Enrico Allavena (trombone) e Damir Nefat (chitarra) —. Sicuramente una scelta che contribuisce a rendere ancora più spettacolare ed emozionante ogni suo live.
Sono le 21:30 di lunedì 4 luglio 2022 quando il palco del Flowers Festival di Torino viene invaso da esseri erbacei che serpeggiano in modo minaccioso: non è un’invasione aliena, ma l’inizio del concerto di Caparezza (anche se ci sarebbero poche differenze tra le due).
Il festival, organizzato da Hiroshima Mon Amour e ospitato nel Parco della Certosa Reale di Collegno, accoglie la sesta data dell’Exuvia Tour: un tutto esaurito all’insegna dei brani dell’omonimo ottavo album del rapper pugliese. Un pubblico temerario e appassionato, che ha sfidato sole e pioggia sin dalle prime ore del mattino e nell’attesa, ammazza il tempo lanciando aeroplanini di carta verso il palco (non senza esultazioni a bersaglio centrato), fin quando Caparezza apre il suo spettacolo: primi brani in scaletta “Canthology”e “Fugadà”.
Un concerto che si muove tra numerose scenografie e costumi incentrati attorno alla natura, la foresta e i riti di passaggio. Nelle due ore e un quarto dello spettacolo se ne vedono di tutte: da serpenti e mantidi religiose giganti per “Contronatura”, fino all’adulazione del Dio Cicala, insetto simbolo di Exuvia («può sembrare una bestemmia ma non lo è, giuro» sottolinea Caparezza), che introduce “Vieni a ballare in Puglia”. Il siparietto che convince di più è un’allegoria sui social media, avvelenati dalla «fede cieca nelle proprie convinzioni» raccontata attraverso una versione esilarante dell’Orlando Furioso, trampolino di lancio per “Vengo dalla Luna”, immancabile nelle scalette di Caparezza.
Caparezza, oltre alla sua fidata e talentuosa band, si avvale di quattro performer che coprono un ruolo a metà tra ballerini e attori teatrali, trasformando lo spettacolo in un vero e proprio circo della foresta. Non mancano i brani più intimi, in cui spicca molto di più il lato musicale: in particolare l’arrangiamento di “La Certa” dona al brano, già potentissimo, un’energia ancora più folgorante.
Verso il finale, un papà avvicina la lettera di suo figlio per il rapper al palco: con un sorriso sincero, Caparezza ringrazia e chiude il set principale con “Ti fa stare bene”. Il bis è affidato a «una canzone che è stata il mio rito di passaggio, che per un periodo ho anche smesso di suonare perché sono una testa calda. Ve la dedico, perché il vostro rito di passaggio arriverà senz’altro». La canzone in questione, “Fuori dal tunnel”, lascia il pubblico in un’atmosfera gioviale e di sgomento: un po’ per il caldo (nota di merito al festival che ha prontamente fornito acqua gratuita durante tutta la giornata), un po’ per lo spettacolo di altissimo livello musicale, teatrale e culturale che si è appena concluso. Solo Caparezza riesce in questo: i suoi concerti sfiorano l’happening, ma sono molto di più: sono celebrazioni trionfanti del mondo dell’immaginario – del resto «art is better than life», – «l’arte è meglio della vita» -, e questo il rapper di Molfetta lo sa bene.
Migliaia di corpi, emozioni e pensieri che diventano una cosa sola nel momento in cui l’artista inizia a cantare: è possibile? Bisognerebbe chiederlo a Novelo e agli Psicologi che sabato 2 luglio, presso il Parco della CertosaReale di Collegno, si sono esibiti all’interno del cartellone del Flowers Festival, organizzato da Hiroshima Mon Amour.
Andrea Leone – in arte Novelo – è un cantante italiano che esordisce nel 2018 nel panorama napoletano. È lui ad aprire la serata: occhiali da sole, t-shirt, microfono in mano e sicurezza da vendere; così il cantante saluta il suo pubblico. L’interazione tra i giovani e l’artista è tanta, in poco tempo si battono le mani a ritmo di musica. Nonostante il caldo qualcuno esce dalla zona d’ombra per unirsi al coro, mentre qualcun altro ne approfitta per le ultime risate con gli amici. In poco tempo si crea come un caos ordinato, e le persone sotto il palco aumentano. L’adrenalina sale, mentre la luce del sole lascia il posto alle luci del palco.
«Quanto fate casino Torino?!»: la frase d’ingresso degli Psicologi (duo composto da Marco De Cesaris, in arte Draft, e Alessio Aresu, conosciuto come Lil Kvneki) è anche una sfida per i fan, che da quel momento iniziano a farsi sentire sempre di più.
La loro scaletta è una salita progressiva verso l’apice, verso il momento in cui viene chiesto al pubblico di saltare, per poi proseguire verso la fine del concerto con singoli più malinconici come “Spensieratezza”. Il duo non perde l’occasione di rivolgere uno sguardo anche al sociale, invitando tutti a dare uno sguardo allo stand di Fridays for Future (movimento ambientalista internazionale di protesta, composto da alunni e studenti), presente durante la serata.
I più audaci salutano gli Psicologi con cartelloni oppure urlando dalle prime file, nella speranza di ricevere qualche risposta. C’è anche chi osa di più e preferisce lasciare ai due qualcosa di decisamente più personale: un reggiseno. Lil Kvneki unisce le mani, accenna un inchino e mette il regalo al sicuro sul palco. Non saranno solo i fan a portarsi a casa un ricordo.
A cura di Chiara Vecchiato
La webzine musicale del DAMS di Torino
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