Inauguriamo la nuova rubrica Play it Sam con un film di un regista che nel rapporto tra musica e immagine ha raggiunto alcune delle più alte espressioni nella storia del cinema: il regista è Claude Chabrol, il film Les Cousins, datato 1959, nel pieno sbocciare della Nouvelle Vague.
La storia, piuttosto semplice, racconta dello studente Charles che si trasferisce a Parigi dal cugino Paul per studiare giurisprudenza all’università. Charles si innamora di Florence, la quale però gli preferisce il cugino, dal carattere più spregiudicato e cinico del suo, sognante e romantico. Ne nasce un intricato complesso di inferiorità che porta Charles a desiderare di uccidere Paul, ma alla fine sarà Paul, impossessatosi della pistola, ad uccidere il cugino. L’esilità della vicenda permette a Chabrol di concentrarsi su un modo di vivere parigino oggi completamente spazzato via, fatto di gesti, parole e comportamenti in cui l’eleganza, la cultura e un’incosciente joie de vivre erano oggetti quotidiani nell’ambiente di quegli studenti universitari ventenni, disinvolti maestri di sprezzatura e divertimento. In quel mondo era normale trovarsi a un festino alcolico dove il padrone di casa esclamasse «Un po’ di musica?», gli venisse posta l’obiezione «Ma niente Wagner!» e lui ribattesse:
Il brano messo su da Paul è il primo movimento della Sinfonia K 550, una scelta di regia particolarmente interessante sia per la natura della composizione sia per l’uso che se ne fa. Nella produzione di Mozart, questa sinfonia è una delle due sole in tonalità minore (l’altra è la K 183), dove l’equilibrio e la purezza della scrittura mozartiana sono espressione di un contrasto che, se da un lato è più marcato rispetto a molte altre sue composizioni in forma sonata (dove i due temi, più che essere in contrasto, sono in dialogo), dall’altro non è ancora arrivato alla drammaticità degli esiti beethoveniani e, poi, romantici: si tratta del culmine del lavoro mozartiano sull’ambiguità. Questa scena riproduce sì il tono della sinfonia di Mozart, ma senza seguirne pedissequamente l’andamento: i gesti e i dialoghi possono corrispondere a quanto sta accadendo in musica, così come possono prendere due strade completamente diverse. È l’atmosfera generale quello che conta. I due temi della sinfonia, identificabili di volta in volta con quest’azione o quel personaggio che entra o esce dall’inquadratura, svolgono un discorso che rimane sospeso tra i due poli tragici e comici della festa, in cui, tra battute e bicchieri di champagne, serpeggiano inespresse gelosie e incombe una tragedia prossima, preannunciata dall’arrivo del Preludio di Tristan und Isolde del temuto Richard Wagner. In realtà, Wagner l’avevamo già sentito all’inizio del film: quando Charles sale per la prima volta a casa di Paul, con la celebre marcia funebre di Siegfried che emerge improvvisamente dal nulla, continua gradino dopo gradino in modo da sincronizzare il superamento della soglia con il motivo a spirale della Morte, e svanisce pochi istanti dopo. Qui, invece, la musica è deliberatamente scelta da Paul, che mette al giradischi «Wagnèr» tra i «buuuu» e i fischi degli invitati ubriachi, spegne tutte le luci e fa capolino dall’oscurità con un candelabro acceso e con un berretto da ufficiale, recitando una poesia in tedesco mentre si muove tra le ombre della stanza inondata dalle primissime battute del Tristan. Alla parola «Liebe», si sofferma davanti a Charles e Florence che si baciano; ne segue un doppio campo/controcampo, in corrispondenza musicale del cosiddetto “tema dello sguardo” di Tristano e Isotta, mentre la luce del candelabro si abbassa, precludendo lo sguardo a noi spettatori.
Sentiremo Wagner un’ultima volta, alla fine, naturalmente con il Liebestod: la scelta del motivo della “morte d’amore” che conclude il Tristan risponde, da un lato, all’esigenza di volgere finalmente in catastrofe l’ineluttabilità che incombe dall’inizio del film – in base alla stessa legge che prevede che, se si inquadra una pistola, questa prima o poi dovrà sparare – e dall’altro alla possibilità di riempire un lungo spazio vuoto (circa tre minuti) con una musica che, dal momento dell’uccisione alla comparsa della parola fine, rimugina in una coda di estatica accettazione della morte. Il film potrebbe finire tranquillamente con lo sparo, ma è solo in quei tre minuti dove non succede nulla che la tragedia ha il tempo di maturare lentamente, inasprita dall’indifferenza con cui la vediamo commessa (nonché accettata senza rimorsi dal carnefice) e dalla rivelazione che la musica, che non muore con Charles, ma segue fino alla fine Paul, forse guidando lei stessa le sue azioni, è sempre stata dalla sua parte.