Sono due compositori ‘proverbialmente opposti’: un diffuso luogo comune vuole infatti che Mendelssohn sia quello leggero e Bruckner quello pesante. Quest’ultimo pregiudizio è addirittura tanto radicato da ridurre il pubblico dell’Auditorium Arturo Toscanini a un terzo della sua capienza, la sera dell’8 maggio in cui Marc Albrecht ha diretto l’OSN Rai nel Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra di Felix Mendelssohn-Bartholdy (al pianoforte Martin Helmchen) e la Sinfonia n. 7 di Anton Bruckner. Eppure, l’impressione al termine del concerto era che i due attributi fossero al contrario: un Mendelssohn pesante e un Bruckner leggero.
Il Concerto n. 1, piccolo capolavoro romantico di grazia e sentimento, è una delle prime composizioni di quel prodigio, come Mozart, eternamente giovane, i cui impeti e amori adolescenziali sono sempre rivestiti, in musica, da una sorta di pasta vitrea e lucente, che dà loro una speciale qualità di freschezza e purezza anche quando l’orchestra è lanciata nel più aggressivo dei fortissimi. Nell’esecuzione pianistica di Helmchen, queste caratteristiche erano, bisogna dirlo, quasi del tutto assenti: la scelta di suonare con espressività marcata i passaggi più sentimentali ha fatto sembrare la composizione di Mendelssohn più un’anticipazione di Brahms, ma con meno abilità nel contrappunto, che non una scintillante rêverie in equilibrio tra spontaneità d’invenzione melodica e malinconie esorcizzate nel virtuosismo brillante della musica. A rendere il tutto meno ‘aereo’ si è aggiunta anche una certa freddezza di tocco proprio nei momenti più sognanti del Concerto. Poco ha potuto recuperare l’orchestra, ottimamente diretta da Marc Albrecht, di quella magia perduta. Gli applausi, tuttavia, sono stati piuttosto generosi e, tra i vicini di poltrona, qualcuno si è detto soddisfatto.
Evidentemente gli è bastato, perché, terminato l’intervallo, qualche posto vuoto in più qua e là ha confermato la poca stima di cui gode, ancora oggi, Bruckner tra il pubblico italiano. Forse a ciò concorre anche il fatto che sia un compositore notoriamente riservato a pochi interpreti. La sua musica è un mistero che diventa tanto più insondabile quanto più lo si cerca di approfondire. Si possono elencare tutte le caratteristiche principali del suo stile: la ripetizione ostinata, i lunghissimi crescendo, la spazialità immisurabile, le armonie complesse, il lento accumulo di tensione, gli incisi ossessivi, i silenzi improvvisi quando la musica arriva al culmine; eppure, anche con l’analisi, rimane sempre la sensazione che nelle immense volumetrie sonore di Bruckner si celi il segreto di qualcosa di inafferrabile. Anche quando la sua musica parla il linguaggio dell’uomo: nell’Adagio della Settima, per esempio, a un certo punto le tube avviano una lunga perorazione funebre, afflitta proiezione sonora del turbamento di Bruckner quando gli giunse la notizia della morte dell’amato Wagner. Accade però più spesso che la sua musica non parli il linguaggio dell’uomo, ma di Dio (o comunque del mistero inspiegabile dietro il cosmo), e che sembri indicare se stessa come una possibile via d’accesso al trascendente: ecco quindi l’utilizzo di qualcosa di antico come il corale, una forma musicale tipica della tradizione religiosa protestante, intonato polifonicamente dai vari gruppi di strumenti e inserito in un’architettura sonora il cui miracolo sta nella sua eterna impenetrabilità metafisica. Riuscire a mostrare, in tutto ciò, il lento trasmutarsi delle angosce esistenziali umane fino al raggiungimento di un’elevazione spirituale è qualcosa che pochi direttori sono in grado di fare. Marc Albrecht va annoverato tra questi: ha colorato l’orchestra con un suono denso e pastoso, autenticamente tardoromantico, e ha tenuto insieme tutti i movimenti con una coerenza tale da sospendere il tempo dell’ascolto (poco più di un’ora) e arrivare al termine della sinfonia in un batter di ciglia, e senza suonare mai più veloce del dovuto. Applausi più che meritati a concerto finito. Altro che pesantezza.