Quando Daniele Gatti e Mario Martone avevano messo in scena a dicembre Il barbiere di Siviglia per l’inaugurazione della stagione 2020-2021 dell’Opera di Roma, molti erano rimasti senza fiato davanti a uno spettacolo che non solo era magnifico di per sé, ma aveva anche più di altri una forza e una necessità tali da costringerci a ripensare il modo di fare teatro e di esserne spettatori. Perciò, a seguito anche della sorprendente unanimità di elogi piovuti dalla critica (da ultimo il Premio speciale «Franco Abbiati»), dal bis della golden couple Gatti-Martone – una novissima Traviata – era lecito aspettarsi gran belle cose.
Invece, a malincuore, tocca ammettere la delusione. Forse sarebbe stata minore senza l’aspettativa, ma nondimeno c’è stata. Primo, i cantanti principali: Lisette Oropesa, nei panni di Violetta, pur mostrando ottime doti recitative (gli sguardi che lancia ad Alfredo mentre lui le dichiara il suo amore sono perfetti per una cocotte incredula) non sempre ha il carisma vocale per sostenere una parte tanto complessa, in cui l’evoluzione del personaggio passa soprattutto dai toni del canto, in questo caso carente di quella giusta dose di sfacciataggine richiesta a un’interprete che fa, per citare Verdi lui-même, «la puttana». Samir Pirgu, interprete di Alfredo, sembra aver preso sin dall’inizio una decisione: smorzare e filare, come un novello Giuseppe Di Stefano, qualunque frase smorzabile e filabile, senza controllo e senza, purtroppo, lo stesso timbro vellutato del fu Alfredo viscontiano, e più che una scelta estetica, parrebbe quasi una costrizione dovuta a una voce non molto estesa, non molto potente o semplicemente (ci auguriamo che sia così) non molto in forma quella sera. Più credibile Roberto Frontali nel ruolo di Giorgio Germont, con una voce e un fraseggio adatti al ruolo, sebbene un pochino troppo incastrati – come anche la recitazione – nel ruolo del cattivone monodimensionale, e non dell’uomo roso dal dubbio e vittima delle convenzioni sociali né più né meno di Violetta (se non le avesse chiesto il sacrificio, chissà che ne sarebbe stato di sua figlia…).
Secondo, la direzione d’orchestra di Daniele Gatti, wagneriano di ferro, bruckneriano d’acciaio e mahleriano d’oro, in questa Traviata resta un mistero. Perché alcuni dialoghi in tempo ternario di valzer sono accelerati fino all’isteria, al punto che nemmeno si riesce a battere mentalmente l’un-due-tre? Perché invece i pezzi brillanti (vedi il coro dei mattadori) hanno un andamento da marcia funebre? Vista la statura del direttore, è legittimo pensare che ci sia una ragione interpretativa nell’invertire l’ordine delle cose, ma l’effetto finale, a volerlo descrivere con un aggettivo solo, è stancante. Stancante nel suo non dare tempo al tempo, stancante nel voler accelerare e rallentare a piacimento il naturale percorso emotivo della storia, stancante nel non curarsi di scandire le pulsioni umane dei personaggi in un modo comprensibile al cuore di chi li osserva.
Terzo, la delusione più grande: la regia. Anche senza fare confronti col precedente, miracoloso Barbiere, o con altre splendide sue messinscene recenti (Chovanščina alla Scala, per esempio), Mario Martone stavolta sembra a corto di idee. Non perché scene e costumi rispettino l’ambientazione ottocentesca o perché, emersi dalla polvere dei magazzini, tornino sul palco quinte e fondali dipinti. Anzi, in un’epoca in cui è regola entrare all’opera e vedere discariche e manicomi, gli abiti da sera e i lampadari d’oro hanno un fascino gozzaniano, riportano al tempo delle rose non còlte. No, il motivo per cui Martone sembra a corto di idee è che le azioni compiute dai personaggi non hanno un “peso specifico”, nel senso che vedere Violetta che si dispera provoca la stessa emozione che si avrebbe nel vedere una formica che si dispera: forse curiosità, ma poca immedesimazione. Giorgio Strehler diceva che i cantanti d’opera non devono semplicemente cantare, devono essere «animali teatrali». Ebbene, di questa “animalità” qui non c’è traccia. È colpa degli attori, si dirà. Può essere, eppure Martone si inventa molto poco per metterli in condizione di esprimerla. Gesti e movimenti, quando non sono impacciati, non hanno quella drammaticità, quella – per usare un termine sdato – urgenza che, se modellata correttamente sulla musica, renderebbe appassionante lo scandirsi della tragedia. Le poche idee visive che dovrebbero “teatralizzare” i sentimenti non hanno, purtroppo, molta felicità inventiva. Perché, ad esempio, quando Violetta arriva al termine della cabaletta alla fine del primo atto, qualcuno (l’inquadratura non mostra chi sia) le lancia dei soprabiti, uno dopo l’altro, sul letto dove è stesa? Che sia una metafora della libertà sessuale asserita a parole? Non è un’invenzione di immediata decifrazione, specialmente se confrontata, per esempio, al senso di istintiva liberazione che chiunque proverebbe davanti alle corde recise nel finale del precedente Barbiere, senza doverci riflettere su. I due momenti più riusciti, a nostro avviso, sono l’incipit della festa (indubbiamente travolgente) e quello, durante il duetto Violetta-Germont, in cui il vecchio genitore tira giù una dopo l’altra le summenzionate quinte che raffigurano la campagna dove abita Violetta, facendole letteralmente crollare il mondo addosso. Quel che resta rimane piuttosto convenzionale.
Due parole, infine, sulla dicitura film-opera che compare sul sito del Teatro dell’Opera di Roma, la stessa con cui ci era stato presentato il Barbiere di Siviglia. Molto del “miracolo Barbiere” stava nel suo aspetto cinematografico, che poteva permettersi di assecondare la musica sconfinando fuori dal palcoscenico, fuori dalla sala o fuori dal teatro deserti, mostrandoci le interazioni tra i personaggi con una spazialità completamente nuova, che solo il Covid poteva rendere possibile. Un campo-controcampo tra un personaggio che guarda la platea e uno che le volta le spalle, o l’inquadratura in profondità di campo di un personaggio nascosto in un palco che origlia ciò che altri stanno dicendo sul palcoscenico erano infatti possibili solo a teatro vuoto. Forse non è colpa di Martone, forse è che ci si abitua in fretta, ma in questa Traviata tutto ciò sa di già visto, è già routine. Qualcuno, sui social, ha ipotizzato che il problema sia del genere poco adatto alla ripresa televisiva, che coi suoi primi piani rende troppo realistica una storia romantica, fatta di momenti di intimità che perdono la loro intensità se diluiti nello spazio di un teatro vuoto, problema che invece non tangeva la commedia del Barbiere. Un’impressione personale riguarda poi la differenza di epoche: persone vestite in stile Settecento nella Roma contemporanea fa molto pastiche, molto Greenaway e piace; persone vestite in stile Ottocento in giro sulla carrozza per la Roma contemporanea fa molto Boss delle Cerimonie (su Real Time). Chissà.
Tirando le somme, non è che lo spettacolo sia brutto, semplicemente è deludente, ma la delusione sta negli occhi di chi aveva alte aspettative, e forse chi non si aspettava niente è rimasto soddisfatto. La trasmissione dell’opera su Rai 3 la sera del 9 aprile ha registrato quasi un milione di spettatori (dati alla mano, 967.000), cifra già alta di suo e ancora più alta se si tiene conto che l’opera non è esattamente il genere più seguito dagli italiani nostri contemporanei. Perciò questa recensione non ha nessun valore: viva Gatti, viva Martone e viva chiunque riesca a far sintonizzare tante persone sul capolavoro di Giuseppe Verdi. Il resto sono chiacchiere.
Lo spettacolo è visibile in streaming su Rai Play.
La traviata
- Musica: Giuseppe Verdi
- Libretto: Francesco Maria Piave
- Direttore d’orchestra: Daniele Gatti
- Regia e scene: Mario Martone
- Coreografia: Michela Lucenti
- Costumi: Anna Biagiotti
- Fotografia: Pasquale Mari
- Maestro del coro: Roberto Gabbiani
- Principali interpreti: Lisette Oropesa (Violetta Valéry), Anastasia Boldyreva (Flora), Angela Schisano (Annina), Saimir Pirgu (Alfredo Germont), Roberto Frontali (Giorgio Germont), Rodrigo Ortiz (Gastone), Roberto Accurso (Barone Douphol), Arturo Espinosa (Marchese d’Obigny), Andrii Ganchuk (Dottor Grenvil), Francesco Luccioni (Un commissionario), Leo Paul Chiarot (Domestico di Flora), Michael Alfonsi (Giuseppe).
- Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
- Performers Balletto Civile