A presiedere la serata dal podio dell’arturico nonché toscaniniano Auditorium la sera dell’inaugurazione della nuova stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, il direttore principale James Conlon, lanciatosi prima nell’ouverture Egmont di Ludwig van Beethoven, poi nel Concerto in re minore per violino, pianoforte e orchestra di Felix Mendelssohn e infine nella Sinfonia n. 5 di Dmitri Šostakovič.
Sì, si comincia, of course, da Beethoven, perché l’anno prossimo ricorrerà il 250° anniversario della sua nascita, e la Rai ha scelto di aprire con una delle sue pagine più iconiche, pur nella sua brevità (comunque gran pregio): questa ouverture delle musiche di scena dell’Egmont è iper-beethoveniana in ogni sua stilla, una specie di bignami tascabile, deliziosamente semplificatore, dell’orizzonte etico e compositivo dell’autore. L’eroe, il destino, il conflitto, la gioia. I temi della partitura si succedono sotto i colpi di bacchetta di Conlon, teorico di un Beethoven meno eroico e più fosco: lunghi e ben evidenziati pedali cupi dei fagotti, forti accenti di contrabbassi e violoncelli, dinamiche diafane e colore opaco dell’orchestra, affaticatore persino dello scintillìo perentorio e strafottente della conclusione. Quanto pesa, essere eroi!
Subito dopo, un’importante rarità del catalogo di Mendelssohn: il Concerto per violino, pianoforte e orchestra, un saggio, ancorché precoce, della sua onnipotenza di melodista e raffinatezza di strumentatore. Il colore orchestrale scelto da Conlon è simile a quello dell’Egmont: il temino dell’introduzione, pur suonato in punta di polpastrelli, ha una tinta scura che lo copre con una cappa ben più cupa di quella prevista dall’innocente ‘minore’ della tonalità d’impianto. Roberto Ranfaldi al violino e Mariangela Vacatello al pianoforte si sono attenuti a questa lettura di Conlon, facendo dialogare i rispettivi strumenti con scatti di insolito nervosismo. Si è insomma ascoltato un Mendelssohn inconsueto, privo di quella ‘ingenuità’ che si porta costantemente appresso.
Tuttavia, è con la Sinfonia n. 5 di Šostakovič, cioè col Novecento, che James Conlon è davvero a casa sua. L’orchestra riacquista il Technicolor, ritrova i suoi ritmi fluidi, riprende il suo passo naturale. Scritta da Šostakovič per rimettere a posto le cose con Stalin dopo che la stampa del regime sovietico aveva pesantemente stroncato la Lady Macbeth del distretto di Mzensk con l’accusa di “formalismo” (più o meno traducibile con: “il popolo non lo capisce, parla di cose sconvenienti”), la Quinta sinfonia si fa amare per questo suo forzato ottimismo, quasi una parodia isterica della struttura beethoveniana, col suo primo tempo in drammatica forma sonata, il sardonico Allegretto, il meditativo Largo, infine il Finale trionfale, espressione di una gioia parossistica, la Vittoria dell’Uomo sul Destino. La musica sembra costruita per strappare l’applauso a forza, come Stalin avrebbe voluto. E la padronanza di Conlon nel dirigere questa Sinfonia ha ottenuto sul pubblico l’effetto previsto.