Il 28 gennaio si è tenuto il quinto concerto della stagione 2019-20 dell’OFT, che per l’occasione ha ceduto il palco del Conservatorio “G. Verdi” di Torino all’Orchestra di Padova e del Veneto, diretta da Luigi Piovano e accompagnata all’arpa da Emanuela Battigelli. La serata, costruita interamente sul tema della conclusione, interpretata come morte, come assenza e ricordo o come ultima occasione compositiva, è stata contrassegnata da un titolo decisamente evocativo: Final Time.
Il pubblico è stato immerso in un’atmosfera sospesa fin dal primo brano proposto, la delicatissima Pavane pour une infante défunte di Maurice Ravel, caratterizzata da un effetto di crescendo complessivo davvero trascinante. Il tema principale ha qualcosa di desolante e ineluttabile, qualcosa di epico e di infinitamente tragico e catartico; con la sua vivacissima forza immaginativa ha trasmesso alla platea per la vita prematuramente interrotta del fanciullo come la promessa di un proseguimento, forse proprio grazie alla musica, capace di rendere questa singola esperienza universale e imperitura.
Con il cuore spezzato da questo mix di desolazione e speranza, con le Six épigraphes antiques di Claude Debussy siamo entrati nel mondo della grecità, anche se “sporcata” di moderno, grazie a una ricerca armonica talvolta al limite della dissonanza. Il concerto, infatti, più che dal tema della fine, è sembrato legato da un’aura antica ed epica, grazie al marcato utilizzo della scala esatonale e al gioco timbrico delle varie composizioni proposte, trascritte per orchestra da una versione originale per pianoforte. In questa nuova resa i protagonisti sono sicuramente stati i fiati, con lo squillo del flauto che ha ricordato ora il saltellare di un fauno, ora lo scintillio delle stelle nel cielo notturno, ora l’ammaliante suono dello strumento di un incantatore di serpenti. Ogni singola parte dell’orchestra, però, è stata valorizzata: nella prima delle sei epigrafi (Pour invoquer Pan, dieu du vent d’été), infatti, gli archi hanno dipinto l’epifania del Dio Pan, marcandone l’intercedere con la loro lenta melodia; nella sesta (Pour remercier la pluie au matin), invece, hanno imitato lo scrosciare della pioggia mattutina. Un ciclo di brevi brani complesso, dunque, in cui ogni musicista ha svolto egregiamente la propria parte, facendo risuonare nella mente degli ascoltatori immagini di luoghi e tempi lontani: l’epigrafe Pour l’égyptienne ci ha trasportati in un paesaggio esotico grazie ai suoi timbri arabeggianti, mentre Pour que la nuit soit propice ci ha regalato un tema modernissimo, che farebbe quasi pensare al jazz, in via di affermazione nel 1914-15.
Dopo le Six épigraphes, le Danses sacrée et profane, sempre composte da Debussy, hanno confermato l’impressione di solenne antichità già evocata grazie ai brani precedenti. L’arpa, in questo caso, è stata la portavoce principale del carattere arcaico delle due composizioni, dando fin dall’inizio l’idea di una danza sacra eseguita dalle sacerdotesse di Apollo in un tempio. Emanuela Battigelli è stata eccezionale: con ogni nota ha dipinto un passato mitico, magnifico e favoloso, ricordando il tocco delicato della giovane Aracne, intenta a tessere gli amori degli dei nella tenzone contro Atena. Passando da sacro a profano, poi, la compostezza è stata gradualmente abbandonata, facendo uscire dalle note della danza l’impeto delle baccanti e lasciando spazio a un crescendo di emozione e sentimento, capace di donare al cuore una pienezza totale. Nonostante l’indubbia bellezza e le vette emotive raggiunte, però, l’inserimento delle Danses nel programma del concerto mi ha suscitato qualche perplessità, perché l’ho trovata una scelta poco coerente con il motivo principale della serata.
Il tema della fine, invece, è stato incarnato alla perfezione dall’ultimo brano, la Sinfonia n. 41in do maggiore, la cosiddetta “Jupiter”, ultimo grande esmpio di questo genere nel corpus di Wolfgang Amadeus Mozart e caratterizzata da una ricchissima densità di spunti tematici. Questo particolare è riconoscibile con chiarezza sin dal primo movimento, Allegro vivace, lungo il quale si susseguono ben tre temi diversi: uno prorompente e tipicamente mozartiano, un secondo cantabile e pensoso e un terzo dai toni danzanti, a tratti scivoloso; talvolta sembra che si innesti, inoltre, un’idea melodica franta, simile all’incedere saltellante del Pan di Debussy. Luigi Piovano ha dato davvero il meglio; è stato a dir poco brillante, ed è stato impressionante vederlo dirigere con ogni fibra del suo corpo: con una mano ha impugnato la bacchetta e con l’altra ha reso gestualmente ciò che un’altra sezione dell’orchestra avrebbe dovuto realizzare, con il risultato di una perfetta omogeneità. È stato veramente l’aedo di questo concerto, il cantore del mitico racconto narrato dai brani che ci sono stati proposti, e come l’aedo di ogni grande storia epica, in qualche modo è riuscito a renderla propria. Con il secondo movimento, un Andante cantabile, è tornata la percezione di quel sentore di ineluttabile e di tragico che ha distinto parte della serata grazie al tema in do minore, abbandonato poi con il Minuetto e trio. Allegretto del terzo e, soprattutto, con il trionfale e dirompente finale Molto Allegro, caratterizzato da un uso massiccio del contrappunto, rappresentato da una forsennata catena di variazioni, che sembrano volersi protrarre all’infinito: forse Mozart, in qualche modo, aveva intuito di trovarsi di fronte alla sua ultima Sinfonia, e desiderava in questo modo ritardarne la fine. Il carattere complessivo del brano, però, è disteso e gioioso: da genio quale era, forse si stava rendendo conto del fatto che sarebbe stata una consacrazione, o almeno che stava creando qualcosa che lo avrebbe reso immortale.