Lunedì 21 ottobre la stagione 2019/2020 della De Sono Associazione per la Musica è stata inaugurata da un concerto da favola: il primo appuntamento di quest’anno, ospitato dal Conservatorio “G. Verdi” di Torino, infatti, si è articolata attraverso varie declinazioni del fiabesco in musica.
Il pubblico si è ritrovato subito immerso in un’atmosfera incantata grazie alla magia degli accordi iniziali del brano d’apertura, già di per sé un’Ouverture: quella composta da un diciassettenne Felix Mendelssohn e tratta dalle musiche di scena del Sogno di una notte di mezza estate. Seguendo Anastasiia Stovbyr e Claudio Berra lungo la partitura, eseguita dai due musicisti nella versione per pianoforte a 4 mani, gli ascoltatori si sono addentrati a piccoli passi nel mondo fiabesco pensato da Shakespeare per l’omonima commedia, lasciandosi travolgere dalla sua dolcezza eterea e favolosa. Come accade nella rappresentazione teatrale, anche la composizione di Mendelssohn è giocata su tre diversi registri stilistici: apre il brano quello alto e sublime della corte fatata di Oberon e Titania, leggero come un battito d’ali, mentre in posizione centrale si trova il motivo sentimentale e appassionato che contraddistingue il vivace romanticismo dei quattro giovani amanti (Elena, Demetrio, Ermia e Lisandro) che si troveranno loro malgrado coinvolti nei bisticci dei sovrani degli elfi. Il terzo è chiaramente rustico e un po’ rozzo, e con i suoi bassi ribattuti simili al ragliare dell’asino non può che contraddistinguere il triviale Bottom, l’uomo più brutto del mondo del quale la regina Titania viene fatta innamorare per vendetta dal marito. Ho apprezzato moltissimo il gioco di dinamiche creato dalla coppia di pianisti, che sono stati capaci di tratteggiare con molta credibilità i caratteri e le sfumature dei vari personaggi: concentrati, affiatati e coordinatissimi, hanno dato al pubblico la magica impressione che le quattro mani che accarezzavano la tastiera appartenessero a un corpo solo.
Dopo quest’introduzione onirica, il concerto è entrato nel vivo del racconto con i Märchenerzählungen di Robert Schumann, per l’esecuzione dei quali al pianista Claudio Berra si sono uniti sul palco Giorgia Lenzo alla viola e Diego Losero al clarinetto. I “Racconti fiabeschi” sono stati composti da Schumann nel 1852, poco prima che la follia ne devastasse completamente la psiche, e danno l’idea di un ciclo epico di storie narrate da un papà ai suoi bambini; il terzetto si è prestato al gioco, regalando un’interpretazione vivace e gioiosa ai brani, molto sentita e brillante, che ha permesso agli ascoltatori di tracciare nella loro mente una vera e propria trama.
Dopo un breve intervallo, il Carnaval des animaux di Camille Saint-Saëns ha trasportato il pubblico in un mondo euforico e divertente, costruito su rimandi parodici ad altri musicisti e divertenti apparizioni (animalesche e non), ma anche di momenti dall’assoluta carica emotiva , come la giustamente famosissima pagina dedicata al Cigno: una vera e propria zoologia musicale, insomma. Il ciclo è stato pubblicato postumo proprio per la sua irriverenza, capace di scandalizzare gli animi dei benpensanti dell’epoca: si pensi al brano dedicato ai Pianisti, nel quale gli esercizi giornalieri degli aspiranti musicisti vengono ironicamente esagerati, o a quello dei Fossili, dietro i quali si nascondono i critici e le loro idee attempate. L’ensemble da camera della De Sono si è calata benissimo nella parte, dando a ogni personaggio una fisionomia credibile e spassosa e strappando più di una volta risate sincere agli ascoltatori.
Il concerto si è chiuso sulle note stridenti di Říkadla, raccolta di brani per complesso e coro da camera di Leóš Janáček, ispirati da una serie di poesie nonsense che fecero innamorare il compositore, anche grazie alle illustrazioni di Josef Lada pubblicate come loro commento artistico. Il fiabesco è qui dipinto nella sua veste più assurda, e colpisce il fatto che emerga, accanto alla ridanciana insensatezza dei testi, anche un aspetto in qualche modo sinistro: crea straniamento nella mente di chi ascolta innanzitutto l’orchestrazione inusuale, dalla quale emergono talvolta timbri stridenti, come quello dell’ocarina. Anche la linea melodica contribuisce al senso di stordimento generale; Janáček, infatti, lavorò moltissimo sulla voce, sia sul canto che sulla parola: il compositore era convinto che si potessero trarre dai discorsi delle persone delle vere e proprie partiture, e su queste si è basato per musicare le sue “Filastrocche”, richiedendo agli esecutori di esibirsi in un lunghissimo recitativo, quasi una conversazione, talvolta al limite dell’urlato. I solisti dell’Erato Choir, infatti, hanno dimostrato una maestria notevole nel prestarsi a un repertorio tanto inusuale, denotando serietà e una strabiliante capacità di mescolare i registi del canto e del parlato. L’orchestra ha dialogato con i cantanti grazie alla puntuale direzione di Dario Ribechi, che ha sottolineato non solo la carica vivace e brillante dei vari piccoli brani, ma anche quell’aspetto mellifluo e maligno che serpeggia lungo l’intera composizione e che ha lasciato nei cuori degli ascoltatori un vago e stranamente piacevole senso di spaesamento.