Il 2 maggio, nello Studium Lab di Palazzo Nuovo, si è tenuta la prima rappresentazione di Beethoven: La sinfonia del silenzio, spettacolo teatrale scritto e diretto da Milena Sanfilippo (sono cinque le repliche organizzate in Università). Al suo fianco, Matteo Chenna e Simone Manzotti nel ruolo di Ludwig van Beethoven. I tre attori decidono di collaborare per mettere in scena quello che è – a tutti gli effetti – uno scorcio di vita di uno dei più grandi compositori della storia musicale.
La scenografia è composta da pochi e semplici elementi: una scrivania, un pianoforte, un letto e qualche elemento decorativo. La vera forza motrice di questa storia sono gli interpreti che, incalzati dalla musica e dalle luci – abilmente manovrati da LudovicaGaetini – trasportano lo spettatore all’interno della mente di Ludwig van Beethoven. Quante persone si sono mai chieste chi fosse veramente il «Maestro», come lo chiama il suo copista Holz (Matteo Chenna)? Quanti suoi ascoltatori hanno pensato a quali potessero essere i suoi affetti? Beethoven: La sinfonia del silenzio ci prende per mano, accompagnandoci nella tanto agognata composizione della Decima (rimasta incompiuta), nel legame con il nipote Karl e in quello con la sua “amata immortale” (interpretata da Milena Sanfilippo); o meglio, del ricordo che il compositore ha di lei. Senza tralasciare il rapporto con il principe Lichnowsky, figura decisiva per il sostegno economico di Ludwig e quello con il padre, Johann van Beethoven (Matteo Chenna), uomo anaffettivo e poco presente.
Il viaggio verso il lato umano di Beethoven non è solo visivo, ma passa anche e soprattutto per la musica. I brani scelti vengono legati attentamente con momenti particolari della sua vita (come durante la lettura della corrispondenza con Karl), invitando lo spettatore ad ascoltare, oltre che vedere. Che la musica sia parte fondamentale delle giornate e degli anni di Ludwig è chiaro sin da subito: le pareti della stanza sono ricoperte di spartiti, note, chiavi di violino. «Queste pareti sono il riflesso della follia nella mia testa» commenta amareggiato Beethoven poco prima della lettura del testamento quando abbatte la quarta parete e, guardandoci negli occhi, parla con noi. «Tra queste pareti, Voi, Maestro, avete toccato l’infinito»: così, invece, lo saluterà Holz.
Al Teatro Colosseo, San Salvario, c’è tanta gente. È il 28 aprile, una di quelle serate in cui fa piacere uscire di casa vestiti più leggeri del solito. C’è una fila lunga, per quanto scorrevole, composta da persone di generazioni differenti. E c’è un evento per il quale probabilmente è da un po’ di tempo che si aspetta, che si fa il conto alla rovescia: Niccolò Fabi approda a Torino con il suo Meno per meno Tour, il ciclo di concerti che celebra l’omonimo album, uscito lo scorso 2 dicembre, in cui figurano diversi brani inediti, oltre alla reinterpretazione in chiave orchestrale di numerose canzoni dal repertorio dell’artista.
Il cantautore romano, che festeggia i 25 anni di carriera, fa il suo ingresso in solitaria, introducendo lo show con un breve discorso: è evidente il desiderio di creare un’atmosfera raccolta, quasi volesse partire per un viaggio, al tempo stesso intimo e condiviso, da compiere insieme ai presenti (scherza: «in questi momenti mi sento un po’ un assistente di volo»). Fabi ha bisogno di immergersi nella dimensione giusta, per familiarizzare con il palco, coabitare lo spazio con il pubblico (il concerto, neanche a dirlo, è andato sold out) ed esprimersi al meglio delle sue possibilità; si percepisce da subito il rispetto della platea per la sua volontà, attraverso un ascolto devoto e – almeno all’inizio – del tutto silenzioso. La prima canzone è “Tradizione e tradimento”, che dà il titolo al disco del 2019.
Ci sono solo lui e la sua chitarra – anzi, le sue chitarre: ne alterna almeno un paio; la scaletta annovera brani del passato più recente (come “Una somma di piccole cose”, 2016) così come i successi degli esordi, tra cui “Rosso” (1997). Partono qui rapide digressioni, in cui Fabi sorride del mood danzereccio del pezzo, che faceva scatenare gli spettatori negli anni Novanta, e del suo contenuto (parla di un sogno in cui lui è morto, e la sua amata al funerale non è vestita a lutto, ma indossa appunto un abito rosso). “Facciamo finta”, annunciata da poche parole che ne suggeriscono l’importanza, lascia una commozione amara, originata da un atroce lutto personale, effuso qui in forma d’arte. L’artista suona anche il pianoforte, accompagnando pezzi quali “Meraviglia” e “Ora e qui”.
Tra un brano e l’altro, Fabi continua a parlare in modo semplice, con tono delicato, verrebbe da dire confidenziale. La finestra aperta sul suo vissuto, sul disagio di stare al centro dell’attenzione (di cui racconta in una recente intervista a Sky TG24), sull’animo sensibile che traspare dai suoi versi, è il risultato di una ricerca continua, che corona il lavoro di un autore – e soprattutto di un uomo – più che maturo. Con “Lontano da me” si chiude la prima parte dell’esibizione, e gli strumenti in ombra sul palco infine si animano.
Oltre a musicisti quali Roberto Angelini alle chitarre, Alberto Bianco al basso – anche loro cantautori – e Filippo Cornaglia alla batteria, collaboratori stabili di Fabi, ad andare in scena è ora l’Orchestra Notturna Clandestina, protagonista dei brani di Meno per meno, arrangiati dal suo fondatore Enrico Melozzi. La prima canzone suonata in questa veste è “Andare oltre”, presente tra gli inediti dell’album. L’altissimo livello della musica sposa la profondità dei testi, e allo spettacolo partecipa l’intero contesto del teatro e della platea, che pian piano inizia – senza entusiasmi eccessivi – a lasciarsi andare.
Il prosieguo del concerto attinge in primis dagli ultimi album (ad esempio con “A prescindere da me”), dando nuova linfa ai pezzi proposti: “Ha perso la città” è da citare come uno degli esempi più riusciti di riarrangiamento. Da Meno per meno è tratta anche “Al di fuori dell’amore”, con la sua toccante riflessione sulle possibilità di «fare la vita che abbiamo scelto»; subito dopo c’è “Filosofia agricola” (da Una somma di piccole cose), a ricordarci la nostra natura di esseri umani, spesso attaccata alle memorie, ai periodi, alle persone, mentre tutto cambia e fluisce.
Ci si avvia poi verso la conclusione, e non può che essere un crescendo. Fabi torna al piano con “Una mano sugli occhi”, prima di eseguire il brano che forse più di tutti racchiude la sua poetica e le sue peculiarità di artista: “Costruire” mette in musica il ruolo chiave della pazienza e dell’imperfezione nella vita di ognuno, dove a contare non sono le destinazioni, ma i percorsi. “Una buona idea” è il penultimo pezzo, e qua sì: si canta a squarciagola – dulcis in fundo – e qualcuno si alza in piedi, colto dalla sua contagiosa orecchiabilità. A chiudere, una canzone che «proprio non vi potete immaginare»: il grande classico “Lasciarsi un giorno a Roma”, che andò a Sanremo nel ’98, lo intonano proprio tutti, anche quelli che addirittura accennano a un ballo, nei limiti e nelle possibilità dello spazio; tutti hanno lasciato la sedia e battono le mani, giunti forse alla meta, dopo un paio d’ore, di quel viaggio voluto, cercato e ottenuto da Fabi. Un finale da standing ovation, che libera tutto l’apprezzamento e l’affetto dei presenti: questo viene raccolto e onorato dal cantautore, il quale saluta e ringrazia Torino insieme a tutti gli altri interpreti.
L’evento ripaga l’attesa e conferma in pieno le elevate aspettative. La sensazione è quella di aver assistito al concerto di un autore eclettico, capace di riscoprirsi in ogni nuova opera, di unire il gusto e l’esperienza musicale a una particolare qualità dell’animo: quella di sapersi ascoltare, per poi entrare in contatto con chi è in grado di cogliere il frutto di tanto lavoro, che sia nel quotidiano o in occasioni come questa.
Un filmato celebrativo e la silhouette della cantante con dei palloncini in mano: così si è aperta la data milanese del Love Sux Tour di Avril Lavigne il 24 aprile, secondo spettacolo italiano del tour che ha portato sui palcoscenici d’Europa l’ultimo lavoro dell’artista (l’album Love Sux, uscito a febbraio 2022), senza tralasciare i singoli di maggior successo della sua carriera.
L’emozione del pubblico era già evidente nel momento in cui i musicisti hanno iniziato a suonare “Bite Me”, primo singolo estratto dall’ultimo album. La vera esaltazione si è però raggiunta quando Avril Lavigne ha iniziato a cantare: da quel punto si è creata una non scontata intesa tra l’artista e il pubblico, che ogni volta che veniva chiamato a cantare i cori o intere strofe dei brani non si faceva trovare impreparato e rispondeva con sempre più forza e vigore.
Il concerto è proseguito saltando nel passato, e indubbiamente le hit della Avril Lavigne dei primi anni 2000 sono quelle che più hanno entusiasmato gli spettatori: da “Complicated” a “When You’re Gone”, passando per “Girlfriend”, era impossibile trovare qualcuno all’interno del Mediolanum Forum che rimanesse impassibile di fronte a quei versi che hanno accompagnato la nostra infanzia e/o adolescenza.
E se per gli spettatori è stato come viaggiare su una macchina del tempo per un’ora e mezza, per Avril Lavigne stessa il tempo sembra non essere mai passato: vista da lontano sembra la stessa di venti anni fa, una principessa pop punk appassionata ed energica. Suona la chitarra e la batteria, spara coriandoli, calcia palloni giganti tra il pubblico e dà vita anche ad un simpatico siparietto a metà concerto in cui beve il Limoncello insieme alla sua band e agli artisti di apertura, Phem e i Girlfriends, mentre propongono una cover di “All The Small Things” dei Blink-182.
Tra i momenti più memorabili del concerto ci sono una performance speciale di “Nobody’s Home”, singolo del 2004 che non veniva cantato dal vivo da ben nove anni, ma eseguito solamente nelle date italiane del tour in corso, e la conclusione sulle note di “I’m With You”, brano estratto dall’album d’esordio Let Go che ha visto il palazzetto accendersi e cantare il ritornello a ripetizione.
Una volta riaccese le luci, il pubblico lascia soddisfatto l’arena e a sentire i commenti è chiaro che l’obbiettivo di Avril Lavigne sia stato centrato: ricordare al pubblico chi è stata e quanto la sua musica degli esordi abbia lasciato un’impronta non indifferente (del resto è stata una delle maggiori esponenti del pop punk, genere ritornato con prepotenza negli ultimi anni), ma che ha ancora i suoi assi nella manica e tanto da offrire, come dimostrano le reazioni degli spettatori ai suoi brani più recenti. Sul palco ha dichiarato di star già lavorando al suo prossimo album, augurandoci che sia un’ulteriore occasione per riportarla in Italia e vivere ancora una sera la magia della Sk8er Girl per eccellenza.
Immagine in evidenza di Francesco Prandoni, dal profilo Facebook del Mediolanum Forum.
La quinta edizione del festival Sonic Park Stupinigi 2023 riparte da alcuni dei nomi più interessanti della musica italiana e internazionale e dal forte impegno turistico di promozione del territorio in maniera sostenibile. Sono questi i temi emersi alle OGR durante la conferenza stampa di presentazione della nuova edizione del festival torinese. Più precisamente dal 4 al 13 luglio saranno previste sette serate concerto nel giardino storico della Palazzina di Caccia di Stupinigi di Nichelino.
Quest’anno, per la prima volta, la rassegna di concerti vedrà la collaborazione proprio con OGR Torino: il primo concerto firmato Sonic Park Stupinigi si terrà proprio nella sala Fucine delle Officine, dove il 26 giugno gli Interpol apriranno le danze e saranno protagonisti (dopo cinque anni dopo l’ultima apparizione) di uno dei loro cinque concerti italiani.
Il festival nasce da un’idea della fondazione Reverse Agency, capitanata dai fratelli Fabio e Alessio Boasi, che in collaborazione con la Regione Piemonte e la città di Nichelino ha l’obiettivo di promuovere e connettere tra loro cultura ed eventi musicali, in un luogo patrimonio dell’Unesco come la Palazzina di Caccia di Stupinigi. Durante la conferenza hanno dato il loro in bocca al lupo anche il sindaco di Nichelino Giampiero Tolardo e di Torino Stefano Lo Russo, quest’ultimo in collegamento streaming.
Il programma che si sviluppa lungo nove giorni, vedrà sette concerti di artisti italiani e internazionali, di ogni genere e gusto. Il 4 luglio si apre con i Simply Red, capitanati da Mick Hucknall, i quali presenteranno al pubblico italiano il loro nuovo album Time. Il 7 luglio è il turno del ritorno dal vivo di Biagio Antonacci. L’8, invece, salirà sul palco Madame – fresca dell’esperienza sanremese e del suo nuovo album L’amore – anticipata dall’opening act della torinese Ginevra. Il 9 luglio il festival continua con la coppia di rapper Guè ed Emis Killa. L’11 luglio il clima sarà internazionale con l’arrivo dei Placebo con special guest i Bud Spencer Blues Explosion.Il nome più atteso arriverà il 12 luglio: Sting, il quale porterà sul palco i suoi brani più famosi da solista e da frontman dei Police. L’ultima data sarà il 13 luglio: i Black Eyed Peas torneranno in Italia dopo la partecipazione come ospiti allo scorso Festival di Sanremo.
Ecco il riepilogo della line-up del festival:
Simply Red – 4 luglio;
Biagio Antonacci – 7 luglio;
Ginevra e Madame – 8 luglio;
Guè ed Emis Killa – 9 luglio;
Placebo e Bud Spencer Blues Explosion – 11 luglio;
Con un po’ di ritardo, ma finalmente è arrivata la top 10 dei singoli del mese di aprile.
Wish You The Best – Lewis Capaldi
Con il suo nuovo singolo Lewis Capaldi racconta una situazione in cui ognuno di noi almeno una volta si è trovato: parlare con una persona che ormai non fa più parte della nostra vita. Un non-detto che lascia la bocca amara e il cuore aperto, e – perché no – fa anche cadere una lacrima.Il singolo fa parte dell’albumBroken by Desire to Be Heavenly Sent, in uscita il 19 maggio.
Voto: 30/30
TI DIREI – Nitro
Nitro ritorna dopo 3 anni con un nuovo progetto: Outsider. Tra i brani spicca ‘‘TI DIREI’’, che arriva come una mazzata sul cuore: è un’intima e introspettiva dedica alla sua fidanzata, in cui esprime chiaramente tutto quello che prova. La produzione, affidata a Mike Defunto, è minimal, con pochi suoni, ma giusti per evidenziare l’effetto dedica/lettera che Nitro vuole dare al testo. Una canzone che cattura l’attenzione fin dalle prime barre.
Voto: 29/30
Boat – Ed Sheeran
Ad un anno e mezzo dall’uscita dell’ultimo album, ecco che Ed Sheeran torna, finalmente, con un nuovo progetto. Substract uscirà il 5 maggio e dopo il singolo “Eyes Closed” ha diffuso un altro spoiler: “Boat’’. Il brano utilizza la metafora di una barca in mezzo all’oceano per raccontare un periodo di depressione. Nulla da dire: il solito Ed Sheeran che racconta i problemi che la realtà ci pone davanti nel modo più sincero e comprensibile possibile, per non farci mai sentire soli.
Voto: 26/30
Mille Voci – Mecna feat. Drast
Mecna annuncia l’uscita del suo ottavo album, Stupido Amore, con questo singolo, in collaborazione con Drast, membro del duo degli Psicologi. Il brano è una lunga richiesta di perdono del passato: chi ha sbagliato ammette le proprie colpe e chiede all’altro di non avere più paura, perché le cose andranno meglio. Chissà se sarà davvero così. Intanto aspettiamo il 5 maggio per vedere quali altri amori ed esperienze ci racconterà il nostro caro Corrado.
Voto: 26/30
Altamente Mia – Bresh, SHUNE
Finalmente dopo poco più di due mesi scopriamo cosa voleva spoilerarci Bresh con gli ultimi secondi del videoclip del singolo “Guasto d’amore”, uscito a gennaio. Come suo solito Bresh fa quello che gli riesce meglio: raccontare storie, utilizzando immagini semplici e quotidiane, ma ben congegnate. Insomma: Andrea non avrà fatto nulla di nuovo, ma non è un problema.
Voto: 24/30
A cura di Roberta Durazzi
Let Me Go – Daniel Caesar
Il talento di uno dei grandi nomi del panorama R&B emerge nel suo nuovo album Never Enough, dopo quattro anni di assenza dalla scena musicale. In particolare, convince il singolo “Let Me Go”, nel quale la voce dell’artista si mescola ad un coro di voci oniriche in sottofondo.
Voto: 28/30
Il Colore Si Perde – Sick Tamburo
I Sick Tamburo anticipano l’uscita del loro nuovo album Non credere a nessuno con il singolo “Il colore si perde”. Un brano dalla melodia piacevole, che ci ricorda con malinconia che il tempo passa troppo in fretta.
Voto: 28/30
Un Briciolo Di Allegria– Blanco, Mina
Dopo il capitolo Blu Celeste, date su date sold out e la polemica di Sanremo Blanco torna alla ribalta con il nuovo album Innamorato. La ciliegina sulla torta è il singolo con Mina, un brano che funziona e che non oscura il giovane artista al cospetto di uno dei mostri sacri della musica italiana. L’incontro tra due generazioni che nessuno poteva aspettarsi.
Voto: 27/30
Something To Hide – grandson
In uno scenario musicale bulimico di nuove uscite grandson resta fedele al suo stile e pubblica un EP intitolato come il singolo, “Something To Hide”. Un basso dirompente fa da accompagnamento del brano e nel ritornello scoppia in un groove elettronico che fa venir voglia di ballare: ormai un marchio di fabbrica dell’artista canadese.
Voto: 26/30
DNA – Iside
La band bergamasca, dopo il convincente album d’esordio ANATOMIA CRISTALLO, torna con un nuovo singolo dal testo cupo, ma convincente. Da non ascoltare in loop se ci sente già particolarmente giù. Poi non dite che non vi avevamo avvisati.
Dopo i due concerti di Stefano Bollani in Danish Trio e Eve Risser con la Red Desert Orchestra, la Giornata Internazionale del Jazz celebrata a Torino si conclude con il ritorno in solitaria di Stefano Bollani sul palcoscenico dell’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto.
Alcuni spettatori si aspettano che il pianista suoni i brani dell’ultimo album Blooming, uscito due giorni prima: il concerto si apre proprio con due di essi, “Vale a Cuba” e “All’inizio”, e Bollani spiega che il titolo si riferisce alla fioritura, vista da più punti di vista.
Le doti di showman del pianista – reduce dal programma televisivo Via dei Matti n. 0 – intrattengono come di consueto il pubblico, anche rendendolo partecipe dei titoli e della storia dei brani, che vengono sempre presentati . Essendo da solo sul palco, la vena comica di Bollani è accentuata, fino a regalare momenti di puro spasso tra aneddoti e sketch esilaranti. Tra i tanti il “momento educational”, in cui fa scoppiare le risate del pubblico con il racconto di un compositore fittizio, tal Oliver Ending, chiamato per tagliare composizioni lunghe che sarebbero potute finire molto prima.
Con il programma televisivo il pianista – racconta – ha avuto la possibilità in questo anno e mezzo di stare vicino a sua moglie, l’attrice e cantante Valentina Cenni, con cui conduceva, portando in televisione la vita di coppia quotidiana, fatta di rispetto reciproco e di stimoli. «E perché non stimolarci pure a Torino?», presenta sul palco la moglie (che qualcuno si aspetta). Ma chi si aspettava che avrebbero omaggiato la città raccontando dei Cantacronache, collettivo nato nel capoluogo piemontese nel 1957? E ancor più, che uno degli autori, Fausto Amodei, omaggiato con il suo brano “Il Tarlo”, fosse presente in sala? (occhiolino agli studenti del Dams).
Tra omaggi e colonne sonore varie, arriva il momento in cui chi è stato già a un concerto di Bollani sa essere quello del medley (ormai un must dei suoi spettacoli), dove il pianista raccoglie richieste di brani i più disparati dal pubblico. Più diversi sono l’uno dall’altro e più sarà assurdo il collegamento tra di essi – come le “Variazioni Goldberg” di Bach o la sigla di “Heidi”: Bollani parte con uno e inserisce all’interno la citazione di un altro, come solo lui riesce a fare.
Rispetto al trio, Bollani in solo può prendersi ovviamente molte più libertà sul piano del tempo, delle dinamiche e dei virtuosismi. Continua a suonare il pianoforte mentre il pubblico ride, batte le mani o ascolta in religioso silenzio in base a ciò che suona. Perfetto erede di Victor Borge, Stefano Bollani gioca e si diverte con la musica, mettendosi al suo servizio come intrattenitore, sempre come grato e umile giullare delle folle.
La Giornata Internazionale del Jazz promossa dall’UNESCO conclude l’XI edizione del TJF2023
Stefano Bollani Danish Trio
Da diversi anni, il 30 aprile, si festeggia la giornata dedicata al Jazz per i suoi valori di inclusività e comunicazione tra culture; al Torino Jazz Festival lo si celebra con un triplo appuntamento al Lingotto, con la marching band della Jazz School di Torino in apertura.
Nonostante non suonino da un po’ di tempo, fin da subito si percepisce come i tre siano ben amalgamati: suonano, giocano e si divertono e, consapevoli di non essere chiusi in una sala prove, lanciano continuamente segnali al pubblico tra una citazione e una battuta.
Bollani balla, si snoda sul pianoforte, alza la gamba, il tutto con un’eleganza che farebbe quasi invidia a Keith Jarrett. Bodilsen fraseggia delicatamente, mai invadente, cantando le note insieme al contrabbasso. Lund dal canto suo trasforma anche il leggio in una parte della batteria e accompagna con il suo tocco leggerissimo, che mantiene, senza mai esagerare con il volume, anche durante i suoi soli. Tutti e tre in realtà suonano delicatamente, come accarezzando le orecchie degli ascoltatori e arrivando a livelli di quasi silenzio. Inoltre suonano per puro divertimento (e non per mero virtuosismo), ed è comprensibile dalle risate e dagli sguardi. Il punto di riferimento di pensiero del trio è il pianista Ahmad Jamal, scomparso lo scorso 16 aprile, a cui hanno dedicato il concerto e l’intera la giornata .
Il repertorio include qualche inedito, qualche brano proveniente dagli album registrati insieme dal trio, fino a “Legata ad uno scoglio” come omaggio a Lelio Luttazzi, con la voce di Bollani (che scherzosamente sostituisce nel testo della canzone il nome di “Bevilacqua Vinicio” con quello di Capossela).
Eve Risser & Red Desert Orchestra – “Eurythmia”
Terminato il concerto ci si sposta nella Sala 500, dove è previsto l’appuntamento con Eve Risser insieme alla Red Desert Orchestra.
Il progetto vede la pianista francese guidare una nuova formazione di musicisti europei e africani residenti in Francia, «mescolando musica africana, minimalismo e jazz» – citando il direttore artistico Stefano Zenni.
Dopo aver richiamato il paesaggio sonoro di un deserto attraversato dal vento, l’atmosfera diventa suggestiva grazie a un amalgama di strumenti “jazz” (tra cui batteria, chitarra elettrica, basso e fiati) con strumenti di tradizione africana quali djembe e due balafon, xilofono tipico dell’Africa Occidentale sub-sahariana. La sezione ritmica procede su ritmi sostenuti, in particolare su quelli conosciuti come afrocuban. Spicca su tutti il djembe, che – al centro dell’orchestra – ne diventa quasi lo strumento principe con i suoi ostinati ritmici.
Verso metà concerto, Risser presenta i musicisti e, provando a descrivere i brani suonati senza soluzione di continuità, intenerisce la sala spiegando con qualche difficoltà linguistica «the first piece is about horses, the second is about snakes», rimpiangendo di non essersi preparata qualcosa in più da dire sulle composizioni. Con l’ultimo brano sull’amore, il gruppo riesce a strappare un rapido bis al pubblico, invitato a mettersi in piedi a ballare e scatenarsi, anche se è già ora di scappare all’appuntamento successivo.
«Grazie per averli portati qui!» urla qualcuno a Zenni, facendo scoppiare un fragoroso applauso degli spettatori infiammati dall’aria di festa.
Esistono musiche che ti proiettano in un mondo lontano, sconosciuto, e che ti fanno perdere il senso dell’orientamento. È quanto successo con Craig Taborn il 28 aprile 2023 al Torino Jazz Festival presso il Conservatorio «Verdi».
Pianista pluripremiato, Taborn ha debuttato professionalmente, ancora da studente, con il James Quartet. Da giovane inizia a suonare il pianoforte e il sintetizzatore, influenzato in particolare da un ambiente di musicisti che fanno dell’assenza di pregiudizi nei confronti degli stili la loro caratteristica principale.
Acclamato come uno dei pianisti più originali della sua generazione, è diventato un punto di riferimento per molti altri musicisti. La sua padronanza di tecniche di improvvisazione si unisce alla conoscenza jazzistica, alla sperimentazione elettronica, al rock e al soul. È proprio questo che gli permette di intrecciare mondi espressivi apparentemente molto distanti tra loro ma, allo stesso tempo, di introdurre in ciascuno di essi il suo stile distintivo.
Unico elemento sul palcoscenico: un pianoforte. Niente sintetizzatori e niente musicisti accompagnatori. Utilizzando sequenze ripetitive e arpeggi di sapore minimalista, Taborn riesce a creare sonorità sorprendenti. Il pianoforte sembra trasformarsi in una grande orchestra o addirittura in un sintetizzatore elettronico ma non c’è nessun trucco e nessun pianoforte preparato: solo Taborn e il suo strumento.
Sfruttando sia l’acustica della sala del Conservatorio che le potenzialità del pianoforte, la musica di Taborn risuona per tutto il teatro: i suoni transitano dal registro grave a quello acuto, sono dapprima debolissimi, quasi impercettibili, e poi fortissimi. La potenza con la quale suona i tasti in alcuni momenti – aiutato dall’uso incalzante del pedale sustain – è in netto contrasto rispetto alla delicatezza di altri momenti nei quali, saltando da una nota all’altra, sembra non toccare nemmeno la tastiera.
La musica che ne risulta è densa acusticamente, ma caratterizzata da poche note reiterate che fungono da radici per creare percorsi che pian piano si espandono in strutture più grandi. La presenza di questi loop caratterizza tutto il concerto, immergendo il pubblico in un grande sogno. I brani inizialmente sono riservati, intimi, poi crescono di intensità fino ad esplodere in un momento di pura energia; a creare un ponte tra le diverse fasi del brano sono le cellule ritmiche o melodiche sulle quali Taborn si fissa. La velocità di esecuzione di alcuni passaggi è straordinaria.
Il pubblico, inizialmente un po’ disorientato, è esploso in un grandissimo applauso dopo aver richiesto un bis. L’ultimo brano è caratterizzato dagli stessi elementi dei precedenti ma allo stesso tempo si distingue da essi per la presenza di elementi più energici e di differenti sonorità: ogni cellula melodica dialoga con l’altra, e ciascuna sembra rappresentare un personaggio.
Dunque, ancora una volta, un grande successo per il Torino Jazz Festival. Anche questo concerto è andato velocemente sold out.
Per la seconda volta sul palco dell’Hiroshima Mon Amour per il Torino Jazz Festival, Hamid Drake si presenta con un omaggio ad Alice Coltrane, grande musicista americana del jazz spesso nascosta nell’ombra del compagno John Coltrane. Per eliminare il senso di vuoto lasciato dalla morte del marito, Alice trova conforto nella musica e nella spiritualità. Convertitasi all’induismo, cambia il suo nome in Turiyasangitanda. “Turiya” deriva proprio dalla filosofia indù e denota lo stato supremo di coscienza pura. Esso è anche il nome del progetto portato in scena all’Hiroshima in una data, quella del 25 aprile, in cui un messaggio di pace, libertà e consapevolezza hanno un significato ancora più profondo.
«We are doing music of spirit and inspiration. Turiya represents the freedom of expression and freedom of consciousness. We are all Turiya, which is the highest state of consciousness». –
A dirlo è proprio Hamid Drake, uno dei più importanti batteristi del jazz contemporaneo. Con una carriera costellata da grandi collaborazioni, tra cui quella con Don Cherry, Drake è diventato un maestro nel fondere tra loro influenze musicali afro-cubane, indiane e africane. Oggi si esibisce con gruppi jazz europei suonando non solo la batteria ma anche il tamburo a cornice, le tabla e altre percussioni a mano.
In “Turiya” spoken words, poesia, musica, gestualità, culture differenti e avanguardie si uniscono per creare uno spettacolo che va al di là di ogni limite, diventando un veicolo per comunicare una profonda spiritualità. Sul palco c’è anche la danzatrice Ngoho Ange che, con la sua danza libera e la sua gestualità pronunciata cattura gli spettatori. Come impossessata da uno spirito (forse della stessa Alice Coltrane?), sembra quasi catapultarsi in uno stato di trance. Con i suoi movimenti ora fluidi, ora rigidi e scattanti, lo sguardo fisso e le espressioni facciali, Ange interiorizza i sentimenti espressi dalla musica e li proietta al di fuori del proprio corpo facendoli arrivare dritti al pubblico. Ad ogni gesto il corpo della danzatrice sembra prendere sempre di più consapevolezza della sua esistenza: sembrano esplicitare visivamente i contenuti musicali e mistici che hanno caratterizzato la vita di Alice Coltrane. Ngoho Ange ha anche portato in scena la poesia attraverso un uso particolare della voce, sperimentando vari modi di emissione del suono a seconda della portata delle emozioni e del significato delle parole. È proprio qui che viene messo in risalto in grande ruolo che hanno avuto le avanguardie in questo progetto: il canto, che si riduce a pura declamazione enfatica, viene unito a versi emessi dall’apparato fonatorio, ricordando le sperimentazioni novecentesche di Luciano Berio. Elemento sostanziale di tutta questa performance è proprio il tema della ripetizione di parole, che restano incapsulate e immutate dal punto di vista letterale; anche la musica risulta costellata di cellule ritmiche ripetitive che permettono come di ricreare lo stato di estasi.
Pochi strumenti, ma differenti tra loro come l’organo Hammond, i sintetizzatori, la tromba, il contrabbasso, le tastiere e la batteria, riescono a creare una grande massa sonora che riempie lo spazio della sala. Per la maggior parte dello spettacolo è evidente il contrappunto tra la danza e la musica strumentale, ma anche tra gli strumenti stessi. Un vero e proprio concerto, nel senso letterale del termine: nonostante i suoni prodotti risultino indipendenti tra loro, la sonorità ricreata è uniforme. I musicisti sul palco si divertono, si scambiano sguardi complici e ballano. Assieme a loro il pubblico ondeggia sulle proprie gambe lasciandosi trasportare dal groove e dal ritmo della musica.
Ospite della serata Gianluca Petrella, fra i più apprezzati trombonisti a livello internazionale che ha collaborato con artisti di fama internazionale incidendo musica di diverso tipo, dalla sperimentazione al mainstream, dal jazz alla musica elettronica e techno. Petrella entra sul palco timidamente e dopo scherzi con Drake perché «He feels he is not dressed properly», sin dalla prima nota lascia tutti a bocca aperta. Integrato perfettamente nel gruppo la musica si fa sempre più energica e potente.
Il pubblico a gran voce, tra fischi e applausi, richiede un bis. Una lunga introduzione pianistica con lunghe scale ascendenti e discendenti, un po’orientali, fa da ponte per l’ingresso in scena degli altri strumentisti che cominciano a suonare note che poco a poco si discostano dalla melodia del piano. Inizialmente il brano risulta cantabile, poi l’ingresso della batteria dà energia, introducendo una pulsazione che richiama le sonorità del blues e quelle afro-cubane. La linea del piano talvolta sembra ricordare attraverso una piccola cellula melodica la canzone Sound of Silence di Simon & Garfunkel. Ancora una volta al centro del brano la ripetizione, udibile sia nella voce di Ange che nella linea strumentale.
Unendo avanguardie e musica afroamericana, Turiya si è rivelato un miscuglio molto ben riuscito di jazz e blues, classicità e avanguardia energia e calma.
La vigilia della Festa della Liberazione vede la città assorbita nell’undicesima edizione di un Festival ricco di musicisti e proposte culturali; clima e temperatura sono in linea con le medie stagionali, l’ora è quella dell’aperitivo – le 18 in punto – e al Teatro Vittoria di via Gramsci va in scena il frutto del sodalizio artistico tra il noto clarinettista lionese Louis Sclavis e la contrabbassista e compositrice romana Federica Michisanti, accompagnata dal violoncello di Salvatore Maiore e dalla batteria di Emanuele Maniscalco.
La collaborazione tra i due artisti è del tutto inedita, così come la formazione del quartetto. L’età media del pubblico non è delle più giovani, e i ragazzi presenti sono pochi, ma non mancano certo; si ha la sensazione di trovarsi attorniati da ascoltatori appassionati del genere, nonostante la grande presa esercitata dalla manifestazione anche su semplici curiosi e onnivori musicali.
Michisanti coglie qui l’occasione per presentare il suo nuovo progetto, del quale introduce i brani intervallandoli a brevi “note d’autore” riguardo le ispirazioni che hanno dato loro vita. La musicista modella una commistione tra jazz “classico” e influssi più eterogenei, derivati soprattutto dalla musica classica contemporanea. I due brani di apertura (il titolo del primo è “Two”, mentre quello del secondo è ancora da definire, anche se avrà a che fare con l’ambiente in cui è stato composto – una mansarda), eseguiti senza presentazione, danno da subito l’idea di un incastro efficace: l’intesa tra gli artisti è palpabile, e nell’insieme si può ben cogliere la sensibilità propria di ciascun elemento. Le linee melodiche sono affidate soprattutto a Sclavis, che alterna clarinetto e clarinetto basso, e a Michisanti, con il suo contrabbasso spesso caratterizzato da fraseggi rapidi e guizzanti.
Diverso spazio è concesso anche a parti improvvisative più o meno larghe, in cui risalta il frizzante drumming di Maniscalco. Quest’ultimo si destreggia tra bacchette, spazzole e mazzuole, con uno stile originale; la batteria presenta un kit abbastanza essenziale, dal quale scaturiscono fantasiose sezioni ritmiche (e poliritmiche). E forse è con il violoncello di Maiore che si apprezzano maggiormente gli accenti di musica contemporanea; le sonorità tipiche dello strumento vengono infatti alternate a pratiche non convenzionali, come l’utilizzo dell’archetto tra ponticello e cordiera – che genera un suono stridente, smorzato – o addirittura un approccio percussivo sulle corde.
Una componente evocativa è imprescindibile per l’opera di Michisanti, che intitola uno dei suoi brani “B4PM”, ovvero “Prima delle quattro [del pomeriggio]”, con riferimento a una “luce particolare” percepita nel suddetto orario della giornata; da menzionare anche “Floathing”, una sorta di neologismo inglese dedicato a una composizione che “cambia continuamente il suo centro tonale”. Proprio durante “B4PM” Sclavis si produce in un lungo assolo col quale, sfoggiando la sua esperienza e il suo talento, strappa un applauso spontaneo ai presenti.
Dopo essersi assentati per pochi secondi dal palco e avere eseguito un ultimo pezzo, gli artisti si congedano dal pubblico con ripetuti inchini, chiudendo un’ora abbondante di concerto. Un jazz che lascia in chi ascolta il sentore di un lavoro profondo, intimo, condotto con l’amore di chi in questa musica sente la propria casa.
A cura di Carlo Cerrato
La webzine musicale del DAMS di Torino
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