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PFM: chi li ferma mai

Si può chiedere al proprio pubblico imbambolato e immobile di applaudire senza cadere nel ridicolo? Se sei la PFM, sì. E se stai girando l’Italia – a 70 anni suonati – per festeggiare cinquant’anni di carriera suonando ininterrottamente per due ore, allora non solo ti è concesso, ma addirittura dovuto.

Il 16 novembre il Teatro Colosseo di Torino ha ospitato una tappa del tour “PFM 1972-2022” con cui la band progressive celebra i successi nazionali e transnazionali e i concerti, che superano ormai le 6000 date nell’arco della loro longeva carriera. A riflettere questa longevità ci pensa il pubblico in sala che, a parte per pochissimi giovani che abbassano drasticamente la media, se non ha l’età dei musicisti, manca poco. 

L’apertura del concerto è affidata ai Barock Project, band che vuole unire la musica classica a rock e jazz. I ragazzi si muovono bene sul palco, dimostrano una tecnica notevole e uno stile molto simile a quello della Premiata Forneria con assoli di tastiera e cambi di tempo ben studiati. Il cantante, prima di lasciare il palco, dichiara la band come progressive e il signore seduto davanti a me si lamenta del fatto che ormai si dichiarino tutti prog. Se fosse stato più giovane avrebbe però convenuto che in un presente in cui sta spopolando l’indie, la band rappresenta una validissima alternativa nel panorama musicale giovanile. 

Foto di Alessia Sabetta

Il teatro ritorna completamente al buio. In un silenzio pieno di fermento esplode la musica. Il concerto vuole fare un viaggio nel tempo partendo dai brani più recenti per andare indietro ai grandi classici della band. E infatti una delle canzoni più attese è “Impressioni di Settembre”, che si scaglia nel teatro come un coltello che squarcia il pubblico, ma anche come un medicamento che lenisce la ferita appena inflitta. Fanno jazz e improvvisano: a detta loro è grazie all’improvvisazione se sono ancora insieme. Suonano Prokof’ev e Rossini «con un piccolo aiuto, come l’avrebbero scritta gli autori se avessero avuto la PFM in orchestra». Lo fanno magistralmente. Dedicano uno special esplosivo a De André con cui hanno collaborato nei celebri due album dal vivo.

Franz Di Cioccio si presenta con l’immancabile bandana nera in testa e le coppie di bacchette incastrate avanti e dietro la cintura. Incarna la libertà. Randagio (il suo soprannome) sguizza sul palco: canta, balla, suona la batteria con una potenza impensabile per un settantaseienne. È lui a dominare la scena insieme a Patrick Dijvas, molto più statico. Il bassista  presenta i brani con il suo accento francese quando il collega si sposta alla batteria, ma lascia parlare per lo più il suo strumento. I due “giovincelli” fanno parte della formazione originale. Con loro un altro storico componente: Lucio “Violino” Fabbri, subentrato otto anni dopo la nascita della band, che suona eccentricamente il violino con l’aggiunta di vari effetti, tra cui il wah wah, pur mantenendo una compostezza inalterabile. Sono loro a mandare avanti la baracca e, nonostante la formazione sia composta da musicisti di altissimo livello, ognuno di loro potrebbe suonare da solo garantendo uno show degno di essere chiamato tale.

Dai social della band

Si sente la mancanza di alcuni brani celebri come “Maestro della voce” o “Chi ha paura della notte”, che il pubblico continua a richiedere. Ma al gruppo che ha scritto la storia del progressive facciamo passare anche questa. 

Una standing ovation, il tempo di una foto con il pubblico e il teatro cade nuovamente in un silenzio contemplativo con la platea che si svuota lentamente: è l’unica cosa che si può fare dopo un concerto simile.

a cura di Alessia Sabetta

Emma Nolde porta DORMI all’Hiroshima Mon Amour

Parole. Nei testi di Emma Nolde le parole sono tantissime e ne servirebbero altrettante per raccontare la seconda data del tour di Dormi dell’11 novembre all’Hiroshima Mon Amour di Torino. O forse non sono affatto necessarie, perché di fronte al suo talento c’è poco da dire e tanto da goderne.

Emma Nolde – Foto di Martina Caratozzolo

Nell’annunciare il tour, la cantante ci aveva avvertiti – “ci divertiremo veramente tanto, piangeremo veramente tanto” –,  la perfetta sintesi di uno spettacolo che ha mantenuto un riuscitissimo equilibrio tra la dimensione intima e quella corale. Un dualismo che non a caso si riflette tanto nelle tematiche dei brani in scaletta per l’occasione quanto nella resa sonora del suo ultimo lavoro, co-prodotto da Francesco Motta e uscito il 30 settembre a due anni dal disco d’esordio di Emma Nolde Toccaterra.

Sono le 21.00, i primissimi volti arrossati per il freddo cominciano a varcare la soglia del tempio. L’attesa di Emma Nolde è scandita dalla voce eterea di Thom Yorke. C’è chi ne approfitta per scambiarsi consigli sui tempi di esposizione più adatti per documentare fotograficamente la serata. Intorno alle 22.30 le luci si abbassano, il pubblico è consistente.

Emma Nolde – Foto di Martina Caratozzolo

Pantaloni cargo, giacca nera e anfibi neri, sin dal primo momento è chiaro come la presenza scenica di Emma sia ipnotica. Accompagnata da Marco Martinelli alla batteria, Andrea Beninati al violoncello e Francesco Panconesi al sassofono, Emma si siede alla tastiera e il concerto si apre sulle note di “Fuoco coperto”, brano che fa da introduzione al disco. La voce pulitissima è accompagnata da una melodia minimale che lentamente avanza in un crescendo, scaldando l’atmosfera.

Emma Nolde – Foto di Martina Caratozzolo

Abbandonando momentaneamente la tastiera Emma imbraccia la chitarra – la quantità di strumenti tra cui si destreggia abilmente è notevole – per regalare al pubblico alcuni tra i suoi ultimi pezzi –  “Storia di un bacio”, “CQVT”, “Dormi” – che in chiave live risultano particolarmente riusciti.

Emma Nolde – Foto di Martina Caratozzolo

Tanto dai testi delle sue canzoni quanto dagli scambi di battute con il pubblico emerge di Emma quella rara capacità che accomuna i bravi cantautori di trovare parole nuove per raccontare e raccontarsi, capacità notevole considerata la giovane età. In diverse occasioni si rivolge direttamente agli astanti e in particolare a coloro “che pensano troppo”, invitando a farsi cullare dalla musica e a lasciarsi andare per tutta la durata dello spettacolo. Brani in scaletta come “Voci Stonate”, “Sfiorare” e “Berlino” risultano particolarmente efficaci nel creare un dialogo esplosivo con il pubblico fatto di botta e risposta a suon di “OH OH OH!”.

Emma Nolde – Foto di Martina Caratozzolo

L’esperienza del recente tour estivo ha dato i suoi frutti, Emma sul palco è sicura di sé. Salta e invita il pubblico a fare altrettanto, ondeggia i suoi lunghissimi capelli e si diletta con mossette ironiche sul brano “Respiro”.

Emma Nolde – Foto di Martina Caratozzolo

Se fino a questo punto i pezzi più malinconici erano controbilanciati da quelli più esplosivi, risulta difficile trattenere la lacrimuccia su “La stessa parte della luna”, brano eseguito in chiusura del concerto in un clima di intimo raccoglimento. Durante l’applauso finale Emma si prende un istante per guardare il suo pubblico per poi lasciare il palco dopo un sincero “vi voglio bene ragazzi” pronunciato al microfono.

Emma Nolde – Foto di Martina Caratozzolo

Il tempo per recuperare le giacche e commentare lo spettacolo appena conclusosi e ritroviamo Emma al banchetto del merchandise che scambia due parole con i più affezionati, mentre si destreggia tra le t-shirt alla ricerca di una “M” perché le “L” sono finite. Il live conferma che di Emma Nolde, e della sua musica, ne sentiremo tanto parlare.

Da sinistra: Francesco Panconesi, Marco Martinelli, Emma Nolde, Andrea Beninati – Foto di Martina Caratozzolo

A cura di Alessandra Mariani

Sono una diva o non sono più niente

La rappresentante di lista al Teatro della Concordia

Scatta una notifica di BeReal collettiva mentre un sessantenne si lamenta della morte del vinile. I glitter, i crop top e le calze a rete, i mocassini indie, le barbe incolte, le giacche a vento in sconto dai cinesi. È il caos. È il pop. È il Teatro della Concordia di Venaria Reale che il 9 novembre ha ospitato La Rappresentante di Lista per la tappa torinese del MyMamma Tour 2022.

A luci accese finalmente si vedono le facce che pochi minuti prima erano attaccate allo schermo del telefono, sorridenti, contrite per il troppo urlare e sgolarsi, unite in un limone appassionato tra il fumo del ghiaccio secco. I glitter sono già andati via, come i bicchieri vuoti che scricchiolano sotto tacchi e anfibi, mentre la sicurezza intima agli ultimi superstiti di uscire. La magia si è rotta bruscamente ma le orecchie ancora ronzano nel silenzio della notte di Venaria, tra un discutibile paninaro che illumina il buio pesto della periferia torinese con patatine a prezzi discutibili e birre annacquate. Ma la folla sciama contenta verso le macchine e il bus notturno, soddisfatta di uno spettacolo che non ha lasciato niente al caso e ha funzionato dannatamente bene.

La rappresentante di Lista @ Teatro Concordia di Venaria Reale

La Rappresentante di Lista si trovava su una strada difficile: due Festival di Sanremo di fila per un duo più o meno indie che non ha mai fatto davvero il botto possono pesare. Il limbo dei vecchi fan che si lamentano dei cambiamenti e i nuovi che vogliono ballare con le mani, con le gambe e con il culo è dietro l’angolo. Ma i Sanremo pesano soltanto se non sai cosa fare della patata bollente che ti sei tirato in mano. E Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina hanno capito esattamente cosa farne: il risultato è una pomme de terre da ristorante stellato.

Il percorso teatrale dei due è sempre più evidente: scenografia, costumi e coreografie curate al dettaglio, uno show in atti con una scaletta che sembra più una divisione in scene di una pièce piuttosto che la tracklist di un live pop. Veronica si muove sul palco come una performer contemporanea, balla, provoca, salta, dà sfoggio del suo range e della sua vocalità pulita e quasi lirica alla Antonella Ruggiero e ogni tanto si lascia andare a sorrisi emozionati che il pubblico coglie con piacere. Dario, dall’alto di stivali rossi laccati con tacco squadrato, si muove tra chitarra, microfono, pianoforte e il piccolo Mac, pentolone magico del mixing.

Con una messa in scena così curata c’è il rischio di risultare freddi e distaccati, di dare ragione a chi lamenta la svolta mainstream. Ma La Rappresentante di Lista ha pensato anche a questo, non l’ha lasciato al caso e a metà concerto Veronica rompe la quarta parete e parla direttamente ai fan, con un discorso che non sembra nemmeno preparato e anche se lo fosse, sarebbe la finzione del teatro, a cui tutti un po’ crediamo lo stesso. Crediamo anche ai pezzi vecchi e nuovi riarrangiati per incontrare meglio l’atmosfera di un tour nei club, più elettronici che mai. Crediamo a “Resistere“, ad “Alieno“, a “Questo corpo” e ad “Amare” e crediamo pure al momento dj set tamarro con musicisti e pubblico che ballano insieme M.i.a. e gli Outkast.

Se il teatro, come il pop, è finzione, quello che rende veri La Rappresentante di Lista è che non hanno un album uguale all’altro, eppure sono sempre gli stessi. E il pubblico lo sa, sotto i riflettori e la cassa dritta e a palco spento. Sotto i costumi e dietro le scenografie rimane il gusto di uno spettacolo vero, a cui si crede volentieri. Sipario, bonne nuit e ciao ciao.

A cura di Clarissa Missarelli

Magic Bus: un viaggio into the Hiroshima Mon Amour

Una delle frasi che più riecheggiano tratte dal film Into the Wild recita: «Chiama le cose con il loro vero nome». Eppure diventa difficile definire quello che è successo lo scorso 21 ottobre a Hiroshima Mon Amour: non un semplice concerto, non soltanto una cover band di Eddie Vedder.

Sui social e sulle locandine Magic Bus viene presentato come uno spettacolo itinerante ispirato al film e alla produzione solista di Eddie Vedder, compositore della colonna sonora del film. La giovanissima produzione dell’agenzia creativa Popcorn Gang fa la sua seconda tappa a Torino di fronte a un pubblico amante del film che rimane seduto a terra per buona parte del concerto. L’atmosfera sembra essere quella di una serata tranquilla tra amici.

Davide Genco in apertura concerto. Foto: Alessia Sabetta

La sala è illuminata di rosso, riprendendo le grafiche della locandina e lo stile dei filmati. Il tocco in più è dato da una serie di video inediti – che comprendono spezzoni del film, letture tratte dal libro, animazioni e brevi video-testimonianze di un ragazzo che in Alaska, a vedere il magic bus, ci è andato davvero – proiettati alle spalle della band per tutto il concerto. Ad accrescere il clima intimo e l’atmosfera avvolgente in cui si ha la sensazione di totale coesione ci pensa la scelta di iniziare il concerto con dei brani eseguiti solo dal cantante (Davide Genco)  e dal suo ukulele in una sala semibuia. Si aggiunge poi il chitarrista (Marco Settanni) che, tra le varie canzoni, esegue la celebre “Society” e infine, il bassista (Marco Chiodi) e il batterista (Enrico Pirola) che danno alla serata una svolta più rock.

Davide Genco (voce e chitarra) e Marco Settanni (chitarra). Foto: Alessia Sabetta

L’esecuzione integrale della colonna sonora è intervallata da una scelta filologica di brani aventi a che fare con Eddie Vedder e con i concetti capisaldi del film: la libertà e il viaggio. I brani selezionati spaziano tra cover dei Beatles, dei Pearl Jam, e “Follow The Sun” suonata con chitarra e armonica, sottolineando quell’immaginario cinematografico del viaggiatore solitario che si tiene compagnia con la musica. D’altra parte, il patto non scritto stipulato tra la band e il pubblico è quello di voler fuggire per una serata da «questo mondo così triste».

Esattamente come accade in un viaggio appena iniziato, in alcuni momenti si percepisce la necessità di un motore che deve carburare, complice il fatto che lo spettacolo sia alle prime esecuzioni e abbia bisogno di essere ben collaudato. Nonostante ciò, il prodotto confezionato è piacevole. 

Magic Bus. Foto Alessia Sabetta

La serata si conclude in modo tranquillo e anche se le temperature sono tutt’altro che glaciali come in Alaska, per tutto il concerto sembra di essere nel vero Magic bus, con Alexander Supertamp a ripetersi che «La felicità è reale solo se condivisa».

a cura di Alessia Sabetta

La Resurrezione di Mahler per la prima dell’OSN

Inizio esaltante per la stagione concertistica dell’Orchestra Sinfonica Nazionale 2022-23. L’auditorium “A. Toscanini”, tempio locale della musica di repertorio, riapre i cancelli per inaugurare un nuovo e ricco ciclo di eventi, e lo fa in grande stile sulle note di un’epica Sinfonia n.2 di Gustav Mahler. Dal podio, Fabio Luisi, oltre la compagine orchestrale, di cui è direttore emerito, dirige il Coro Teatro Regio Torino, preparato da Andrea Secchi, e le due soliste, il soprano Valentina Farcas e il contralto Wiebke Lehmkuhl. L’evento, in più, viene trasmesso in diretta sui canali radiotelevisivi RAI, godendo così di una copertura completa e accessibile a tutti.

credits: OSN

È possibile oltrepassare il confine posto da Beethoven con la sua mastodontica Nona Sinfonia? Questo era il dilemma che affliggeva le menti dei compositori tardo ottocenteschi successori del santone tedesco. L’opera magna beethoveniana sembrava, in effetti, una vetta insormontabile per chiunque si cimentasse in quel genere. Evidentemente, Mahler non poneva limiti alla sua creatività e si impegnò, temerario, nell’impresa. Dopo anni di lavoro e fatiche, non senza fasi di stallo creativo, portò alla luce un imponente poema sinfonico di ben cinque movimenti per soli, coro e orchestra. Il titolo Resurrezione suggerisce un profondo connotato spirituale che l’autore necessitava di esprimere sul pentagramma, mosso da esperienze del suo personale vissuto.

Si sviluppa, nel corso delle varie sezioni, un’ascesa tanto sofferta quanto catartica che culmina nel grandioso movimento finale. L’intervento delle voci soliste, nei tempi centrali, addolcisce il flusso melodico; quello del coro misto, più tardi, restituisce invece vigore e corpo sonoro. Se l’idea di un corale conclusivo risente, con evidenza, del modello beethoveniano, è l’organico strumentale “allargato” ad accentuare ancor più la magnitudine in atto: una ricca sezione di ottoni (molti, persino, fuori scena), unita ad un ruolo primeggiante delle percussioni, produce all’ascolto un impatto dirompente.

credits: OSN

Lo stile di direzione di Luisi, diretto e carismatico, sposa appieno il carattere dell’opera. Una semplice bacchetta non sarebbe stata sufficiente, così si serve di tutto il suo corpo per guidare gli orchestrali verso l’esecuzione desiderata. Il podio stesso sembra non contenerlo: si affaccia ai primi violini quasi fino ai loro leggii, li accarezza nei momenti più leggeri e li incita quando l’intensità aumenta. Con il solo sguardo, gestisce anche fiati e percussioni nelle retrovie, mentre, per introdurre il coro, si unisce lui stesso al canto, nel pieno del coinvolgimento emotivo. In definitiva, il direttore riesce a trainare con sé l’intero organico al suo cospetto, gesticolando con grinta e passione dall’inizio alla fine.

La performance dell’orchestra, di conseguenza, non può che essere convincente. Grazie ad un’attenta cura delle dinamiche, l’OSN valorizza quei picchi di tensione, prima incalzanti e poi statici, su cui l’opera intera poggia le fondamenta strutturali ed espressive. Gli archi sanno essere all’occorrenza aggressivi o moderati; gli ottoni, con le loro cavalcate decise, irrobustiscono il suono; le percussioni (ben tre gli schieramenti disposti) intervengono per marcare gli accenti delle frasi. Quando, poi, il coro solenne si impone sulla scena, la sinfonia raggiunge il suo apice drammatico.

credits: OSN

Gli spalti, colmi per il consueto appuntamento d’apertura, restituiscono tutta l’energia ricevuta con una corposa ovazione in chiusura di serata. Luisi e l’OSN non deludono le orecchie fini che abitualmente frequentano l’Auditorium, alle quali, per l’occasione, si è aggiunta una ricca rappresentanza di giovani spettatori tra studenti appassionati, aspiranti musicisti e semplici curiosi. La tradizione, dunque, prosegue con successo e si preannuncia anche quest’anno, sul palco del “Toscanini”, un’avvincente stagione concertistica. 

A cura di Ivan Galli

Gianluca Petrella e Cosmic Renaissance al Magazzino sul Po: un jazz visionario e moderno

I Murazzi tornano protagonisti nella notte torinese. 20 ottobre, Magazzino sul Po: arriva Gianluca Petrella con il progetto Cosmic Renaissance. Il musicista con il suo gruppo presenta l’ultimo album Universal Language, uscito lo scorso 14 ottobre, nell’ambito del festival internazionale Jazz Is Dead, in una delle dodici date del suo tour autunnale, che lo vede attraversare il nostro Paese e numerose città europee. L’ultimo evento italiano sarà infatti il prossimo 28 ottobre 2022 in quel di Bologna.

Fra l’ingresso del pubblico – molto variegato, anche se la percezione è quella di avere a che fare con diversi appassionati del genere – e l’inizio del concerto passa un’abbondante ora e mezza, scandita dalle musiche del dj set di Andrea Passenger, il quale, in una proposta che interseca elettronica e sonorità percussive di ispirazione afroamericana, dipinge un clima propedeutico al jazz atipico ed eclettico che rappresenta il marchio di fabbrica del trombonista barese, collaboratore, fra gli altri, di Elisa e Jovanotti. Intorno alle 22:25 i Cosmic Renaissance, dopo essere stati annunciati, entrano sul palco in un florilegio di camicie dalle fantasie affascinanti e colori decisamente accesi.

Gianluca Petrella al sintetizzatore. Foto: Elisabetta Ghignone

Gli strumenti sono synth, trombone (suonati entrambi dallo stesso Petrella), tromba(Mirco Rubegni), basso elettrico (Riccardo Di Vinci), batteria – acustica, basi e pad elettronici (Federico Scettri) e percussioni (Simone Padovani): l’assenza di chitarre altro non è che un dettaglio, che viene spontaneo notare. Dopo un lungo dialogo iniziale tra le tastiere e la tromba Gianluca emerge con energia, coadiuvato dalla base ritmica, a conquistare i presenti tra armonie ariose e frizzanti intrecci affidati ai due ottoni.

Cosmic Renaissance (da sinistra: Federico Scettri, Gianluca Petrella, Riccardo Di Vinci, Simone Padovani). Foto: Elisabetta Ghignone

Da menzionare le costruzioni poliritmiche tra la vivace batteria di Scettri e le congas – combinate a piccoli piatti, campanacci, chimes e altri originali strumenti (di cui uno a base di tappi di plastica!) – di uno scatenato Padovani, che spesso ruba la scena ai colleghi, così come le guizzanti linee del basso di Di Vinci. Petrella incalza i suoi uomini, avvicinandosi faccia a faccia e lasciandosi assorbire dal flow del divertimento musicale.

Simone Padovani e la sua strumentazione. Foto: Elisabetta Ghignone

Circa a metà dell’esibizione prende posto sul palco il primo di due ospiti, i quali hanno tra l’altro partecipato alla registrazione dell’album: si tratta del sassofonista Pasquale Calò, che si inserisce nel brano “Nomads”. Il musicista si unisce al discorso con grande apporto – e trasporto – personale, in un’atmosfera sempre più satura delle sfumature sul genere portante. Il secondo ospite è l’apprezzatissima cantante Anna Bassy, che entra poco dopo: la sua voce, specie in “Wonder” e in “Connection”, calza a pennello, intima ma prorompente, con la declinazione più soft del corredo strumentale. Scelta azzeccatissima.

Anna Bassy. Foto: Elisabetta Ghignone

L’evento si avvia verso il crescendo finale, attraverso duetti melodici avvincenti e la sfida, quasi solistica, di ognuno dei musicisti a spingersi oltre il limite, a dare il meglio di sé. Il pubblico, in modo più o meno timido, si lascia andare muovendosi a tempo sul posto, sazio per aver assistito dal vivo a tanta buona musica.

Ancora Padovani, Pasquale Calò e Mirco Rubegni. Foto: Elisabetta Ghignone

Dopo l’agognato bis, di nuovo in compagnia di Anna, Petrella e i Cosmic Renaissance salutano calorosamente Torino, prima di bere qualcosa nel locale e godersi gli ultimi scampoli di serata. C’è da sperare che non passi molto tempo prima di rivederli da queste parti, a ispirare chiunque apprezzi la loro arte.

A cura di Carlo Cerrato

MITO 2022: il pianoforte di Beethoven

Nuovo appuntamento a Torino per il festival musicale MiTo 2022. La sera del 23 settembre, presso l’Auditorium grattacielo Intesa San Paolo, Andrea Lucchesini al pianoforte omaggia Ludwig van Beethoven. Quattro le sonate del compositore tedesco eseguite per l’occasione: la n.1 in fa minore op. 2 n. 1, la n. 14 in do diesis minore op. 27 n. 2, la n. 30 in mi maggiore op. 109 e la n. 31 in la bemolle maggiore op. 110.

Il programma, fedele alla linea del tempo, ripercorre l’evoluzione dello stile compositivo beethoveniano. Un filo conduttore lega l’intero percorso: una cura meticolosa, spesso logorante ed esasperata, per la stesura della partitura in ogni minimo dettaglio. Le sue opere, specchio dei suoi turbamenti interiori, trasudano ingegno, fatica e pàthos.

credits: MITO Settembre Musica

La Sonata n. 1, dedicata al maestro Haydn, rispetta ancora molti canoni della tradizione classica viennese, anche se il Prestissimo finale sembra già preannunciare la vera cifra stilistica del compositore di Bonn, più violenta e sfrenata. Il tocco al pianoforte di Lucchesini è ben ponderato, talvolta leggero, talvolta più energico come richiesto dai passaggi eseguiti.

L’ipnotico Adagio introduttivo della Sonata n. 14 (meglio conosciuta come “Al chiaro di luna”) raccoglie l’intera platea in un silenzio quasi contemplativo. Dopo un breve Allegretto intermedio, l’incanto viene bruscamente spezzato dal travolgente Presto agitato finale, uno dei vertici del pianismo beethoveniano per tecnica e carica emotiva.

credits: MITO Settembre Musica

La restante coppia di sonate proposte (nell’ordine, la n. 30 e la n. 31), risalenti al tardo stile, sembrano suggerire un sofferto equilibrio interiore finalmente raggiunto dal compositore. Anche qui, Andrea Lucchesini offre saggio della sua perizia espressiva, confermandosi specialista in questo tipo di repertorio.

Si congeda, infine, con altri brevi frammenti tratti dal ricco corpus beethoveniano, strappando ulteriori applausi a un pubblico compiaciuto. In fin dei conti, risulta difficile, specie dopo una performance convincente dell’esecutore, rimanere indifferenti all’ascolto di un qualsiasi capolavoro escogitato dal genio di Ludwig van Beethoven.

credits: MITO Settembre Musica

A cura di Ivan Galli

MITO 2022: Il pianoforte di Rachmaninov

Il festival musicale MiTo 2022 trova sede anche presso il Teatro Cardinal Massaia di Torino, dove, nella serata del 20 settembre, si è tenuto un concerto per pianoforte solo dedicato a Sergej Rachmaninov ed interpretato da Alessandro Taverna. Il programma era composto dai nove Ètudes tableaux op.39 e la Sonata n.2 in si bemolle minore op.36

Un breve discorso d’apertura del presentatore ha ricordato il valore unico dell’autore russo, anello di congiunzione tra una tradizione romantica in declino ed una moderna, d’avanguardia, che si faceva spazio nella musica, nelle arti e nelle menti del Novecento. Il passaggio di consegne è eclatante: Rachmaninov nasce nel 1873 quando Manzoni, uno dei padri della cultura ottocentesca, emette il suo ultimo respiro, e muore nel 1943, mentre il secondo conflitto mondiale macchia il XIX secolo

credits: MITO Settembre Musica – Simone Tonnicodi

Tutto ciò trova conferma nella scelta del repertorio proposto in sala, a partire dall’Allegro agitato in do minore con cui si è aperta la serata . L’autore russo, meglio noto per Sonate, Sinfonie e Concerti, era poco votato alle forme brevi come gli Studi. Questi dell’op. 39, scritti negli ultimi anni di permanenza in patria, portano con sé evidenti strascichi romantici (si pensi a Chopin e Čajkovskij, di cui Rachmaninov era fervido seguace) pur affacciandosi già alle sonorità della stagione novecentesca.

La Sonata, proposta nella seconda parte dello spettacolo, infatti esprime chiaramente questa nuova direzione avanguardista. Il brano, eseguito nella versione del 1931 (rimaneggiata dallo stesso autore rispetto all’originale del 1913), si sviluppa su armonie complesse, ritmi altalenanti, suoni prolungati che vibrano nelle orecchie e nell’anima di chi ascolta.

credits: MITO Settembre Musica – Simone Tonnicodi

L’esecuzione di Alessandro Taverna rende giustizia alle note del compositore russo, grazie ad una sensibilità ben calibrata che segue il flusso sonoro, ora dirompente e deciso, ora delicato e maestoso. Incitato dagli apprezzamenti degli spettatori, il pianista ha infine concesso un bis degno di nota: la dolce cantata di Bach “Schafe können sicher weiden” ridotta per pianoforte, ed una “Play piano play” da saloon western, di Friedrich Gulda.

Il nutrito pubblico (teatro sold out per l’occasione) non risparmia gli omaggi alla performance pianistica ed apprezzamenti per l’evento nel suo complesso, a testimonianza di un interesse superstite per un repertorio, quello novecentesco, tanto denso e sofisticato quanto affascinante.

credits: MITO Settembre Musica – Simone Tonnicodi

A cura di Ivan Galli

Nella nicchia: VOLA live a Milano

Ogni fanbase ha dei gusti in comune. Nulla di più vero per i patiti del progressive metal: una nicchia – sì – ma che si presenta puntuale per i propri beniamini, trasformando i concerti in raduni, dove le facce sono ricorrenti. Non stupisce, infatti, che il pubblico approdato sabato 17 settembre al Legend Club di Milano per i VOLA sia lo stesso degli ultimi live dei Leprous, Haken (dove la band faceva da supporto) o dei TesseracT.  Quartetto danese, i VOLA si sono ritagliati in poco tempo un posto d’onore della comunità prog, forti di passaggi radiofonici anche in Italia (alcuni brani sono in rotazione su Radiofreccia e affini). Il tour attuale è incentrato su Witness, disco uscito lo scorso anno, per molti il loro lavoro migliore.

I VOLA si esibiscono sul palco del Legend Club di Milano (foto: Mattia Caporrella)

Oltre ai VOLA è prevista l’esibizione di altri due gruppi: primi in scaletta i Four Stroke Baron, band americana a cavallo tra Devin Townsend e Tears for Fears. Nonostante le canzoni ripetitive, il gruppo riesce a intrattenere grazie al bassista, che tra piroette e headbanging cattura l’attenzione del pubblico. Seguono gli australiani Voyager: il loro progressive metal di matrice synth-pop fa scatenare il parterre del Legend. La band racconta della loro mancata partecipazione all’Eurovision Song Contest di quest’anno con “Dreamer”, un brano dance pop, ma con chitarre distorte a sette corde. Sono loro la sorpresa della serata: il set è festaiolo e spiritoso, fra cori dedicati a Piero Pelù (data la somiglianza del vocalist Daniel Estrin al cantante toscano) e a Roberto Giacobbo, presentatore, appunto, di Voyager su Rai 2.

I Voyager all’opera. No, non è Piero Pelù. (foto: Dario Vignudini)

Il palco si fa blu: i VOLA entrano sulle note di “24 Light Years”. Si nota subito il batterista Adam Janzi, che si esibisce con grande intensità. La scaletta è una montagna russa: la partenza in crescendo culmina con “Stray The Skies”, un brano piuttosto aggressivo, dove il pubblico, fra moshpit e pogo, si fa sentire. Tuttavia questi durano poco, forse per la stessa natura della band: i VOLA sono specializzati nell’alternare riff di chitarra baritona sincopati che ricordano i Meshuggah, a ritornelli in pieno stile new-wave: Asger Mygind, come vocalist, viene spesso paragonato a Dave Gahan dei Depeche Mode. La band prosegue nel segno di questa dialettica, riuscendo a trasporre dal vivo il proprio sound in maniera ineccepibile. Particolare anche il light show, caratterizzato da neon e LED sincronizzati con la ritmica dei riff.

Il batterista Adam Janzi e il particolare light show al neon dei VOLA. (foto: Dennis Radaelli)

Si chiude con “Inside Your Fur”: ormai il Legend sta esplodendo di calore. Poco dopo si creano code per il merch, dove le band accolgono i fan tra saluti e foto. La serata finisce così: tanta stanchezza per lo show intenso, ma tanta ammirazione per i musicisti. I fan escono dal locale consci di poter ritrovare lo stesso ambiente al prossimo concerto “di nicchia”, sempre contenti di essere pochi, ma buoni.

Immagine in evidenza: Mattia Caporrella

A cura di Mattia Caporrella


Modestia a parte: Biffy Clyro live a Milano

Lo scorso giugno il trio scozzese dei Biffy Clyro aveva chiuso l’ultima giornata del Download Festival, uno dei festival di maggior rilevanza nel panorama della musica live britannica. La band, capitanata da Simon Neil alla chitarra e alla voce, assieme ai gemelli Ben e James Johnston batteria e basso – riscuote da anni di un successo clamoroso in madrepatria; al pari di gruppi come Foo Fighters o Muse, i Biffy Clyro hanno ampiamente dimostrato di saper riempire gli stadi. Lo stesso non si può dire dei loro concerti all’estero, dove la production è molto più modesta.

I Biffy Clyro sul palco di Carroponte (foto: Mattia Caporrella)

É questo il tipo di spettacolo che il gruppo sta portando in giro per l’Europa da qualche settimana, a sostegno dei due album “fratelli” A Celebration of Endings e The Myth of the Happily Ever After. Mercoledì 14 settembre tocca all’Italia: siamo vicino a Milano, al Carroponte di Sesto San Giovanni. I fan si sono radunati, nonostante il tempo molto incerto, fin dalla notte prima, creando un’atmosfera più simile ad un campeggio (complice anche l’area adibita) che alla fila di un concerto. Alle 20:15 si spengono le luci: gli olandesi De Staat irrompono sul palco, scatenandosi all’insegna di un dance-rock eccentrico, con riferimenti all’immaginario dei Talking Heads nella loro presenza scenica.

Gli eccentrici De Staat durante la sfuriata finale del loro set con “Witch Doctor” (foto: Mattia Caporrella)

Esattamente un’ora dopo, i Biffy Clyro accompagnano dolcemente il pubblico verso il loro show con “Dum Dum”, per poi strattonarlo con prepotenza con “A Hunger in Your Haunt”, grazie alla sua energia prorompente. La scaletta è satura di stili diversi: dal punk rock al cardiopalma (“That Golden Rule”), all’AOR da cori da stadio (“Biblical”), esperimenti progressive (“Slurpy Slurpy Sleep Sleep”), fino al pop puramente commerciale (“Re-arrange”). Il concerto culmina con, in qualche modo, la crasi di tutti questi elementi: oltre al classico “Many of Horror”, nel bis c’è “Cop Syrup”, un brano caratterizzato dalle sue impennate, discese, crescendo orchestrali, parti confinanti con lo shoegaze, urla punk e arpeggi di chitarra non troppo lontani dai Genesis. Il pubblico è estasiato: in sole due ore i Biffy Clyro hanno dimostrato di saper coinvolgere con qualsiasi genere proposto, suonando un greatest hits (con l’adeguato spazio agli ultimi lavori) con un’energia spiazzante.

Il trio in uno dei tanti momenti “a raccolta” durante il concerto. Si notano anche i turnisti, tra cui due violiniste. (foto: Lorenzo Roy)

Di poche parole, la band lascia piuttosto parlare il repertorio, limitandosi a ringraziamenti sparsi in un italiano molto improvvisato (colpisce il “grazie mille Milano tutti” di Neil). Il light show particolarmente ispirato riesce a massimizzare la resa del modesto impianto. Niente effetti pirotecnici, mega schermi, coriandoli o scenografie: tre ragazzi (sette contando i turnisti), la loro musica, e un pubblico di appassionati. Quello dei Biffy Clyro è uno spettacolo intimo, vivace, creativo, imprevedibile, e non c’è schermo LED di ultima generazione che regga il confronto.

Immagine in evidenza: Lorenzo Roy

A cura di Mattia Caporrella