In seguito a due anni di rinvii causati dalla pandemia, Dua Lipa è finalmente approdata in Italia con il suo Future Nostalgia Tour: dopo le due tappe sold out di Milano, la cantante ha concluso la sua permanenza italiana all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno il 28 maggio. La grande attesa per l’evento era già intuibile dalla quantità di fan accampati davanti al palazzetto sin dalle prime ore del mattino, con l’obiettivo di accaparrarsi i migliori posti sotto al palco.
Ad aprire il concerto ci ha pensato Griff, giovane artista britannica che trascina il pubblico e lo coinvolge proiettando il testo delle sue canzoni sul mega schermo e facendo intonare all’arena “I Wanna Dance With Somebody” di Whitney Houston.
Alle 21, dopo un breve video di introduzione per scaldare gli spettatori, le note di “Physical” rimbombano nel palazzetto e Dua Lipa sale sul palco, accolta da un caloroso boato: inizia così un’ora e mezza di performance in cui si susseguono canzoni tratte dall’ultimo album Future Nostalgia, vecchie hit e collaborazioni con Calvin Harris, Silk City ed Elton John, che duetta “virtualmente” con la cantante su “Cold Heart”.
Dua Lipa è instancabile: canta e balla senza fermarsi, se non per i cambi d’abito e per salutare i fan accalcati nell’arena, che ricambiano con grande affetto ed energia nonostante le ore passate in coda sotto la pioggia. Gli spettatori cantano dall’inizio alla fine anche i brani meno noti dal grande pubblico e intonano “Sei bellissima”, facendo ampiamente sorridere la popstar britannica.
Il concerto ha tutti gli ingredienti dei grandi eventi pop degli ultimi anni: coreografie arricchite da oggetti di scena come sedie e ombrelli, una passerella da cui Dua Lipa ammicca e saluta il pubblico, una piattaforma che sale sulle teste degli spettatori durante l’esibizione di “Levitating” e momenti più intimi come l’esibizione di “Cold Heart” in cui tutta l’arena accende i flash dei propri telefoni mentre i ballerini portano sul palco una bandiera LGBTQ+.
Lo spettacolo termina con “Don’t Start Now”, cantata con trasporto da tutto il pubblico che quasi copre la voce di Dua Lipa e che viene chiusa da un’esplosione di coriandoli: si conclude così una serata indimenticabile, che conferma il carisma e la presenza scenica dell’artista e consolida la sua posizione come uno dei nomi più importanti e richiesti della scena musicale odierna.
I Tauro Boys ci hanno dedicato un tour intero, l’ultimo, ma che internet non renda felici è piuttosto chiaro. Il 26 maggio ci sono almeno tre generazioni diverse nella sala Majakovskij dell‘Hiroshima Mon Amour, a sudare, pogare ed esorcizzare ansie e paure dei figli di internet. Ci sono gli ultratrentenni che si rifiutano di crescere e gli universitari coetanei del trio romano, in bilico tra Gen Z e Millennials. Ma ci sono anche gli adolescenti che in fila per entrare parlano dell’interrogazione di matematica il giorno dopo e poi urlano a squarciagola di voler morire. Yang Pava, Prince e MXMLN arrivano sul palco in una sala già infiammata non solo dal caldo infernale ma anche dall’entusiasmo di un pubblico che per la maggior parte è al primo concerto dopo la fine delle restrizioni Covid. La voglia di tornare ad un idealizzato mondo pre-pandemia è tale che non servono grandi doti da animale da palcoscenico per farsi acclamare a gran voce. Ma i Tauro hanno sempre avuto un certo appeal sul pubblico, sanno muoversi bene, interagire con i fan e tra di loro, fare battute col microfono in autotune e tutti quei cliché da cui i trap boys non possono sfuggire. La setlist pesca principalmente dall’ultimo album, Tauro Tape 3, la cui prima traccia, “Cobain Codeine”, apre anche il live. Ma i successi degli album precedenti, come “Marilyn”, non vengono certo dimenticati e i fan li accolgono sempre con un certo trasporto emotivo a cui il trio romano non si è mostrato indifferente.
Qualcuno potrebbe rimproverare agli artisti della scena urban e dintorni di non muovere un dito sul palco – in fondo, si tratta di basi e mic in autotune – e chiedersi il motivo per cui si senta il bisogno di andare ad un concerto del genere. La lontananza dei grandi spettacoli pop dalle performance di artisti come i Tauro Boys è abissale, ma è proprio questo il punto. Non si tratta di uno show da ammirare, ma di un momento collettivo, comunitario per cantare insieme quel pezzo che condividiamo su Instagram e ascoltiamo su Spotify in solitudine, con un sostanziale annullamento della distanza artista-pubblico. Un discorso analogo – ma in realtà non così tanto – si potrebbe fare con i cantautori indie, o itpop che dir si voglia, che si pongono in un’ottica di identificazione dell’ascoltatore nei testi delle canzoni e nelle figure degli stessi cantanti. Ma il gap è piuttosto ampio: il cantautore indie non è esattamente “uno di noi”, gode in ogni caso dello status di artista, il più delle volte anche di strumentista, che dà vita alla “magia” della musica e della sua sensibilità e la dona ai suoi ascoltatori. Artisti come i Tauro Boys nella quasi totalità dei casi non suoneranno mai uno strumento sul palco anche se poi lo sanno fare davvero – e non fanno niente che non farebbe anche un fan preso a caso dall’audience. Ecco che un live come questo e come quello di tanti altri rapper e trap boys italiani trova il suo senso, ed ecco che i Tauro Boys, quando salgono sul palco, diventano, assieme al pubblico tutto, la Tauro Gang.
“All I need is love”: no, non siamo in un nostalgico revival dell’amore universale anni ’60, ma nel 2022, sul palco del contest musicale più seguito d’Europa. Dietro il microfono c’è Achille Lauro, che canta, ansima, bacia il suo chitarrista Boss Doms, si struscia sulla scenografia, cavalca un toro meccanico, dà fuoco agli strumenti, poi ringrazia e se ne va. I fan sono contenti ma non sorpresi, il pubblico italiano è in visibilio, quello internazionale un po’ meno. Contro ogni pronostico, “Stripper”, il brano che Lauro ha scritto appositamente per l’ESC, non passa in finale e perde contro performance decisamente più sottotono. Domandarsi cosa sia successo è lecito, rispondere è complicato.
La sconfitta di Achille Lauro al Festival di Sanremo era scontata: non solo per un brano debole e che ha soltanto le tinte sbiadite di quello che era stato “Rolls Royce”, nel 2019, ma anche per una performance poco brillante e non certo all’altezza di quello che Lauro ha costruito attorno al suo personaggio e alla sua presenza in determinati contesti. Molto meno ovvia, tuttavia, è apparsa la sua candidatura all’Eurovision 2022 per rappresentare San Marino. Che la visibilità di un palco come quello di ESC fosse nelle mire di Lauro fin dall’inizio è piuttosto chiaro. Come è altrettanto chiaro che qualcosa, in tutti questi corsi e ricorsi, sia andato storto. La figura di Lauro da sempre genera cortocircuiti, come spesso accade con figure investite, più o meno volontariamente, dello stato di icona del momento. Icona della trap a Sanremo 2019 – con un brano che di trap ha poco e niente -, icona di liberazione sessuale e identitaria nel 2020, icona della moda nel 2021: Lauro ha creato attorno a sé, al suo corpo, agli abiti che indossa, a come parla e come scrive, tutta una serie di discorsi che si porta dietro ogni volta che sale su un palco, specialmente in contesti mainstream e popolari.
Dal bacio con Boss Doms, alla scenografia in fiamme, agli outfit, quello che il pubblico di Sanremo e quello di Eurovision hanno visto sul palco e in diretta su Rai1 non è niente di nuovo nel progetto artistico di Lauro. Il destinatario del suo spettacolo non è la comunità dei fan, di chi effettivamente compra i biglietti per i live, i vinili in edizione limitata o il merch. L’efficacia dello show di Lauro e il suo team, che ha avuto indubbiamente un forte impatto almeno fino al 2020, dipende anche e soprattutto dal destinatario, dal target che dovrebbe essere più o meno sconvolto nel vedere un uomo con un corpo tutt’altro che androgino o efebico, che gioca con outfit e identità non binarie. Oppure quello ristretto e comunitario che coglie in un brano i continui riferimenti dalla cultura pop o dalla carriera di Lauro stesso, in un infinito rincorrersi di citazioni e autoreferenzialità. Ma l’Eurovision non è Sanremo e “Stripper” non è “Rolls Royce” e forse sta proprio qui la chiave di volta per comprendere – e accettare – l’effettiva sconfitta di Lauro al contest 2022, a discapito di quanto una certa fetta di pubblico italiano pensasse. Se “Domenica” (il brano dello scorso Sanremo) suona come uno svogliato tentativo di riprodurre il senso, le sonorità e gli arrangiamenti di 1969, l’album che ha strappato Lauro alla trap, “Stripper” si inserisce nella direzione degli ultimi due lavori in studio, Lauro e Achille Idol Superstar. L’evidente operazione che Lauro sta inseguendo ormai da anni non è la ricerca della hit radiofonica, ma piuttosto un tentativo di trovare la canzone-inno. La pretesa di una costruzione musicale complessa o ricercata decade, in favore di melodie volutamente immediate, liriche che “parlino a tutti”, strutture semplici e universali. Il focus non è Franco Battiato, ma “Albachiara”, per intenderci. Ma un brano come “Stripper” non funziona su un palco come quell’Eurovision, specialmente nell’edizione subito successiva alla vittoria dei Maneskin, di cui il brano di Lauro, ad una fetta non piccola del pubblico europeo è sembrato una brutta copia.
Avrebbe funzionato meglio sul palco dell’Ariston? Per quanto sia complicato e forse poco interessante fare la storia con i se e con i ma, vale la pena di riflettere in questi termini. “Rolls Royce”, in un contesto e in un momento in cui Lauro era ancora un perfetto sconosciuto, è suonato come una ventata d’aria fresca in una kermesse stanca e incapace di intercettare le novità. Pian piano le cifre stilistiche di Lauro sono diventate parte integrante del personaggio: il collage di riferimenti pop, la lirica per accumulazione, gli outfit-opere d’arte, il personaggio dandy misterioso che non si capisce mai cosa provi davvero. Tutti questi discorsi sono Lauro stesso ed esistono ogni volta che sale su un palco come quello del Festival di Sanremo, al momento unico luogo in cui funzionano davvero. Senza i precedenti che solo il pubblico italiano coglie, “Stripper” non può avere lo stesso impatto. Ecco che agli ascoltatori europei e appassionati di Eurovision, più giovani, più internazionali, più informati, due chitarre elettriche e qualche riferimento pop non fanno effetto.
Lauro sa scrivere, sa performare e sa interpretare e questo lo ha dimostrato fin dagli esordi della sua carriera, fin dai primi mixtape, da “Barabba” e dalla trap. L’utopistica pretesa di piacere a tutti, la nevrosi di produrre un album all’anno e non riconoscere quando è meglio mollare la presa, le eccessive costruzioni egoriferite che sottendono ogni sua mossa artistica o di marketing: sono forse questi gli ingredienti del cocktail che sta portando Lauro su un terreno pericoloso. “St’amore è panna montata al veleno, ne voglio ancora”, cantava in “Me ne frego” e oggi più che mai suona come uno sguardo allo specchio, una resa, forse inconscia. Lauro, a poco più di trent’anni e in meno di cinque, ha disegnato una parabola che molti artisti non vedranno in una carriera. Ed è proprio questo, forse, il momento di fare un passo indietro, per quanto sia spaventoso. Di vivere così, c’est la vie, Rolls Royce.
Chi abita a Torino sa del suo particolare legame con la magia bianca e nera, essendo essa il punto condiviso tra i due triangoli formati rispettivamente con Praga e Lione per la prima, mentre per la seconda troviamo Londra e San Francisco. Questa manichea opposizione che idealmente divide bene e male troverebbe nella città una sorta di equilibrio in cui queste due forze coesistono pacificamente. Ora, volendo compiere un salto logico abbastanza articolato e astratto, persino forzato se vogliamo, ritroviamo questa contrapposizione anche in campo artistico: l’esempio recente più evidente della scorsa settimana. Infatti, mentre il capoluogo piemontese era sotto i riflettori internazionali dalle luci sgargianti, colorate e gaie dell’Eurovision, altrove – e nello specifico al Bunker – è andata in scena l’oscura e pagana esibizione dei veneti Messa e dei torinesi Ponte del Diavolo.
Il motivo per cui i Messa stanno ottenendo così tanti consensi da pubblico e critica nostrana ed estera è presto detto. Questi quattro ragazzi hanno tutto: atmosfera, potenza, carica emotiva, gusto nella composizione e soprattutto hanno le canzoni, elemento imprescindibile che però molto spesso viene messo in secondo piano per privilegiare – a torto – altri fattori secondari come l’immagine o il gossip. Ecco, con i Messa tutto ciò non avviene e anzi, la musica è davvero la protagonista di un flusso sia fisico che mentale capace di trasportare in luoghi remoti sia geografici che dell’anima. Il loro doom metal è infatti di difficile classificazione e si può ben dire che è solo una componente di uno stile ben più composito e ricercato che ingloba suggestioni dark jazz e lunghe divagazioni strumentali orientaleggianti. C’è un senso rituale, spirituale, trascendentale ed ipnotico nei momenti in cui la musica si fa esclusivamente strumentale, ma anche una componente estremamente d’impatto che fa capolino ogni qual volta la band spinge sulla distorsione e i riff pachidermici. L’atteggiamento sul palco dei musicisti è attitudinalmente vicino allo shoegaze, con i singoli membri concentrati sui rispettivi strumenti ed effetti, ma ciò non toglie che la performance complessiva sia tanto impeccabile tecnicamente quanto sudata e fisica.
Discorso a parte per Sara Bianchin, la cantante, autrice di una performance di altissimo livello pur rimanendo praticamente ferma innanzi al microfono a occhi chiusi, totalmente concentrata e assorta nell’interpretazione dei brani. Bianchin ha una grande potenza, tecnica e un timbro che a tratti ricorda le grandi interpreti femminili di certa black music, che immersa in questo contesto estremo impreziosisce i brani addolcendoli e dando loro un’ulteriore eleganza. Quando non canta, sa mettersi in disparte, accovacciandosi tra le due spie in mezzo al palco per bere e far riposare le corde vocali, lasciando lo spazio ai suoi sodali di portare avanti la liturgia doom. Il paradosso, nonché peculiarità diffusa tra molti metallari è che, se da un lato la cantante mostra un evidente talento, carisma da vendere e una voce notevole e penetrante, dall’altro sembra essere altrettanto timida, specialmente quando mormora i titoli dei brani al microfono. Eppure al pubblico questo sembra quasi non importare tanto è assorto dalla musica. Tolte le giuste ovazioni tributate tra una canzone l’altra, il Bunker cala in un silenzio innaturale, concentrandosi nell’ascolto dei Messa come se fosse in trance. Insomma, se non c’eravate, vi siete realmente persi qualcosa.
Una menzione d’onore va sicuramente ai Ponte del Diavolo, che avevano il difficile compito di scaldare la platea. Missione che può dirsi compiuta in virtù dell’interessante miscellanea metal derivata dall’improbabile, ma azzeccata, unione di doom e black metal, voci femminili e scorie grunge: in altre parole una vera e propria riscoperta degli anni novanta aggiornata in chiave moderna. L’aspetto più interessante del gruppo è senz’altro la presenza di ben due bassisti in formazione votati a sovvertire il più rassicurante dominio della doppia chitarra. Una scommessa vinta perché le frequenze dei due bassi non si sovrappongono e l’equalizzazione dei rispettivi strumenti, uniti all’unica chitarra ritmica presente nel quintetto, crea un muro sonoro di tutto rispetto dalla pasta densa, plumbea, asfittica. L’esecuzione dei brani – tutti estratti dei due EP Mystery of Mystery (2020) e Sancta Mentuis (2022) – ha il giusto tiro e trasporto e sopperisce una presenza scenica a tratti un po’ statica, ma che nel complesso ha intrattenuto a dovere il pubblico fungendo da ottimo antipasto prima della portata principale.
Dopo tre anni di assenza in Italia, mercoledì 18 maggioYungblud è tornato a cantare a Milano, questa volta riempiendo il Carroponte di Sesto San Giovanni nell’unica data italiana del Life On Mars Tour.
Dopo neanche un giorno dall’annuncio di Yungblud – terzo album del cantante la cui uscita è prevista per il 2 settembre prossimo –, il ventiquattrenne inglese Dominic Harrison ha avuto finalmente l’occasione di suonare dal vivo anche nel nostro Paese i brani di weird! (2020).
Il sole non è ancora scomparso dietro al muro di amplificatori al centro del palco quando arrivano le Nova Twins, duo rock londinese composto dalla cantante Amy Love e dalla bassista Georgia South. Scelta a dir poco perfetta per aprire il concerto: non siamo ancora al ritornello del primo brano che il pubblico – a maggioranza under 25 e rigorosamente vestito in stile punk rock – si sta già muovendo a ritmo.
Sono invece da poco passate le 21 quando tutte le luci si spengono e dopo un video introduttivo risuonano le note iniziali di “Strawberry Lipstick”: Yungblud corre sul palco ed incita subito tutti a saltare con lui. La sua energia coinvolge in pochi secondi i presenti: è praticamente impossibile non ballare con il cantante che ti obbliga a farlo.
In pochi minuti volano birre e plettri. Yungblud canta uno dei suoi ultimi singoli, “The Funeral”. I fan intonano con lui il brano, che parla di amare sé stessi e accettarsi così come si è. Il concerto non è iniziato neanche da una ventina di minuti e il cantante appare già sinceramente commosso, forse sorpreso di trovare fan così affezionati, che non sbagliano neanche una parola dei suoi testi. Anche durante i pezzi più lenti come “mars” – una ballata che racconta la storia di una fan transgender, ma più in generale la storia di chi si è sempre sentito diverso – non viene mai meno la sua energica presenza scenica.
Oltre i brani del secondo album, la scaletta prevede anche alcuni pezzi dal primo e vari singoli più recenti, ad esempio “Memories” realizzata in collaborazione con Willow e “Fleabag”, sempre dai toni pop-punk. Con il proseguire della serata – e il diminuire dei capi di vestiario addosso a Yungblud, che per gli ultimi brani rimane in pantaloncini e bretelle – aumentano le interazioni con il pubblico: prima una proposta di matrimonio, poi il coming out di un fan. Si è creata un’atmosfera quasi intima, forse difficile da credere pensando alla quantità di gente presente.
Yungblud elogia l’accoglienza italiana, «Ho trovato una famiglia qui a Milano» e aggiunge «Ho speso diciannove anni della mia vita sentendomi giudicato per essere diverso, ma volete sapere come riesco a essere su questo palco oggi ed essere chi voglio? È grazie ad ognuno di voi». E nel caso in cui qualcuno avesse ancora dubbi riguardo il suo affetto nei confronti dei fan, ad un certo punto inizia a indicare ogni presente nelle prime file ripetendo «Ti amo, ti amo, ti amo».
Il live si chiude con “Machine Gun (F**k the NRA)”, un brano che denuncia la facile accessibilità alle armi negli USA. Ma sono i cori di “Loner” intonati dal pubblico a fare da sottofondo mentre lentamente il Carroponte si svuota.
Quando Tananai aveva detto sul palco di Sanremo che l’avremmo rivisto all’Eurovision, non pensavamo dicesse sul serio. Venerdì 13 maggio, non al PalaAlpitour – la location del contest – ma al Teatro della Concordia di Venaria si è tenuta in effetti la data torinese del cantante, il cui vero nome è Alberto Cotta Ramusino. E tra la semifinale e la finale di Eurovision, tantissime sono le persone che hanno trovato il tempo per riempire il teatro e assistere al concerto dell’ultimo classificato di Sanremo. Appena salito sul palco anche lui stesso ne sembra particolarmente sorpreso.
È la prima data del tour, ma Tananai non sembra troppo agitato: fin dal primo brano si muove sicuro sul palco, cantando e salutando gli spettatori. Tra una canzone e l’altra non perde l’occasione di chiacchierare e scherzare con il pubblico. Quando gli lanciano un reggiseno dal parterre è entusiasta, afferma che è la prima volta che gli accade. La scaletta prevede diversi brani dall’ultimo album Piccoli boati (2020), alternati con gli ultimi singoli pubblicati quest’anno come “Esagerata” e “Maleducazione”.
Arriva presto uno dei brani più attesi della serata, “Baby Goddamn”, singolo virale su TikTok nonché disco di platino. La gente balla e canta con Tananai che, elettrizzato, scende più volte tra il pubblico, a volte sporgendosi dalla transenna a volte scavalcandola direttamente e attraversando il teatro gremito. Verso metà serata spunta sul palco un enorme fungo giallo, la band scompare nelle quinte e Tananai si sposta alla console. Da quel momento ai brani cantati si alternano pezzi che ricordano l’inizio della sua carriera quando, sotto il nome di Not For Us, faceva il dj.
Momento centrale è stato quando il pubblico ha iniziato a chiamare l’ospite atteso da tutti i presenti: dopo la prima strofa di Tananai compare infatti Rosa Chemical, vestito in completo bianco e sorpreso anch’egli dal calore con cui viene accolto. I due cantano “Comincia tu”, duetto sul celebre brano della Carrà presentato in anteprima durante la serata cover dell’ultimo festival di Sanremo. Tananai e il rapper di Alpignano hanno una buona chimica e senza difficoltà fanno ballare tutti i presenti.
Verso la conclusione del concerto Tananai canta anche, naturalmente, “Sesso Occasionale”, brano che gli ha permesso di conquistare il venticinquesimo posto al Festival di Sanremo 2022.
Sicuramente Tananai non sarà un erede della nobile arte del bel canto, ma intrattiene e diverte come un valido performer, senza “tirare troppe stecche” (come lui stesso al contrario ha invece affermato più volte).
L’esperienza di volontariato allo Stupinigi Sonic Park della scorsa estate ha unito un gruppo di giovani di Nichelino nell’organizzare una rassegna di concerti che ha preso il nome di Re Open. L’ultimo evento si è tenuto venerdì 13 maggio all’Open Factory, l’hub nichelinese che da anni riunisce i giovani del territorio in un luogo di cultura, dialogo e condivisione. Re Open è nato per promuovere artisti locali ed emergenti e per far vivere al pubblico una serata all’insegna della musica dal vivo. In quest’occasione si sono esibiti il cantautore Miola e la band BRXiT.
Il primo a salire sul palco è Miola, che fin da subito dà l’impressione di chi può improvvisare gli accordi di qualsiasi canzone con la sua fedele chitarra acustica, divertendo chi ha di fronte. Così accade in effetti al concerto: fin dai primi accordi il giovane cantautore entra in empatia con il pubblico, composto per lo più da amici e conoscenti che da anni supportano la sua musica con entusiasmo.
Una volta scaldata l’atmosfera, gli spettatori illuminano l’ambiente con le torce dei cellulari e prendono la giusta confidenza per andare a cantare sottopalco, chiedendo animatamente il bis di “GPS”, ultimo singolo del cantautore pubblicato lo scorso marzo. Oltre che i suoi inediti, in scaletta era presente anche “Antartide” dei Pinguini Tattici Nucleari, proposta in una versione senz’altro apprezzata dal pubblico accorso al locale.
Il volume aumenta considerevolmente quando i BRXiT salgono sul palco. Il tappeto di pedali ai loro piedi preannuncia un suono grezzo e distorto che avrebbe da lì a poco fatto scatenare i presenti. Formatasi nel 2017 sotto il nome di Fratellislip, la band composta da Lorenzo (voce), Gabriele (chitarra), Davide (basso) e Alessio (batteria) ha deciso di ripartire lo scorso anno con un nuovo progetto in italiano, dopo aver proposto per anni brani in inglese. È cambiato il nome, ma non l’anima rock: il sound dei BRXiT ricorda infatti quello dei Verdena e dei primi Arctic Monkeys di “I Bet You Look Good On The Dancefloor”. Il loro nuovo album – in uscita nel 2022 sotto la supervisione del cantautore torinese Bianco come direttore artistico – sembra vada tenuto sott’occhio.
La band sul palco si diverte e il pubblico risponde con lo stesso entusiasmo. Il groove scandito dai colpi di batteria e dai giri di basso si interrompe solo per un istante, ovvero quando Gabriele, il chitarrista, annuncia un omaggio a Taylor Hawkins dei Foo Fighters, recentemente scomparso. Il gruppo suona in sua memoria “Best of You” con ogni briciola di energia e passione rimasta.
Il live si chiude con uno scrosciante giro di applausi e con qualche birretta che passa di mano in mano, con la consapevolezza che la musica dal vivo vissuta in ambienti famigliari e piccoli ha un sapore ancora più speciale.
Un viaggio attraverso scenari alternativi realizzati con lo scopo di fare luce su una nuova identità nera, lontana da un passato di schiavitù e di discriminazioni razziali, un’epopea che a partire dalla musica di Sun Ra e di George Clinton prosegue fino ai giorni nostri unendo l’iconografia africana, la fantascienza e l’avanguardia: un’odissea in un’Africa 2.0 che comprende l’esposizione di copertine di album tratti dalla storia della musica afroamericana.
Ecco cosa è stato proposto durante la mostra con aperitivo Visioni Soniche. Cover Afrofuturiste a cura di Juanita Apráez Murillo, tenutasi sabato 7 maggio dalle 18:00 presso i locali nell’area Jigeenyi del Bunker come preludio al concerto di Moor Mother per la seconda anteprima di Jazz is Dead festival.
Le danze iniziano alle 22:00 con il gruppo di apertura SabaSaba; il pubblico affluisce timidamente e, dopo qualche minuto, la sala si riempie. Il sound che vede come protagonisti il mellotron, campioni di suoni rielaborati attraverso filtri e la batteria, si basa sulla riproduzione di rumori, atmosfere distorte e repentini sbalzi di volume che simulano bene l’ira della natura in grado di generare maremoti, esplosioni vulcaniche, scontri tra placche.
E se il viaggio dei SabaSaba termina con un terremoto, è con il cinguettio degli uccellini, simulati dai fischietti del percussionista Dudù Kouate, che comincia quello di Moor Mother. La voce calda della poetessa sembra sostituirsi a quella della coscienza dei presenti, mentre gli slogan da lei pronunciati riecheggiano nella mente anche nei giorni a seguire. Oltre all’elemento etnico proposto da Dudù con i suoi strumenti a percussione tipici della tradizione afroamericana si affianca quello sperimentale e futuristico di Camae Ayewa – vero nome di Moor Mother –, che grazie all’ausilio di un tablet e di un computer seleziona campioni di rumori e di suoni elettronici. È una musica che si potrebbe ascoltare anche senza il senso dell’udito: il giro di basso attivato riesce ad entrare dritto nel petto dell’ascoltatore fino a sostituirsi al battito cardiaco e in un attimo sembra che tutti i cuori presenti nella sala battano allo stesso tempo. Un evento ipnotico, onirico, avvolto dal mistero; una sorta di rituale, forse una lode alla vita – come suggerisce il simbolo egiziano Ankh stampato sulla sua camicia –.
Dopo circa un’ora e mezza, il silenzio di fine concerto viene interrotto dagli applausi di un pubblico rapito che richiamano sul palco l’artista. Moor Mother ora si dirige verso gli spettatori, li guarda negli occhi, tocca le persone nelle prime file mentre interpreta l’ultimo brano, l’unico fra quelli proposti ad avvicinarsi alla forma canzone, forse al genere hip hop, ma che rimane ancora una volta impossibile da etichettare.
La serata si conclude con i dj set di Stefania Vos, DOPS e Sense Fracture aka Birsa.
Lo scorso 5 maggio all’Hiroshima Mon Amour Mobrici ha presentato live il suo ultimo album Anche le scimmie cadono dagli alberi, pubblicato lo scorso novembre. Dopo essersi esibito in qualità di frontman dei Canova nei maggiori club italiani, il cantautore lombardo è ripartito in tour con il nuovo progetto solista.
Fin dal pomeriggio, davanti al locale si è radunata una schiera di fan che ha atteso sotto la pioggia l’apertura dei cancelli, pur di essere tra le prime file e godersi il concerto da sottopalco. Il pubblico – a maggioranza femminile – si è intrattenuto con l’opening di Leandro, cantautore siciliano trapiantato a Torino che ha presentato gli inediti dell’album in uscita questo mese.
Mobrici si presenta con un cappello a cilindro e la sua fedele chitarra acustica. Il set è spoglio, senza scenografie ed effetti, ma con un solo sfondo che emerge alle spalle dell’artista e a quelle dei musicisti: quattro cuori stilizzati in lacrime, che sembrano costituire una sorta di manifesto della sua poetica musicale. Ad attenderlo alla destra del palco c’è anche un pianoforte, che a tratti contribuisce a rendere l’atmosfera ancora più intima.
La tracklist è un susseguirsi dei brani dell’ultimo album e dei singoli più conosciuti – ed amati – dei Canova. La malinconia nell’aria è palpabile: la maggior parte del pubblico accorso al locale è infatti fan di vecchia data dell’indie rock della ex band del cantante, scioltasi nel 2020. Vedere in scaletta brani come “Manzarek”, “Threesome” e “14 sigarette” non può che riportare alla mente dei fan i ricordi legati ad un gruppo che ha intrapreso strade differenti.
Il cantautore tra un brano e l’altro ne approfitta per interagire con il pubblico, creando simpatici siparietti con chi da sottopalco si scatena. Quando torna serio, rivela che ogni brano nasce da esperienze e storie sentimentali vissute personalmente; dunque, tutto ciò che scrive gli serve da sfogo per esorcizzare ciò che prova. Gli spettatori torinesi non sbagliano un colpo e cantano a squarciagola, guadagnandosi l’affetto del cantautore che afferma: «Per voi canto qualche brano in più, ma non ditelo ai fan delle altre città».
Il live si chiude con “Vita sociale”, uno dei brani più movimentati in scaletta. Mobrici saluta e il pubblico gli dedica un sentito applauso. L’Hiroshima si svuota timidamente: il passo lento con cui gli spettatori varcano l’uscita è il finale dal sapore agrodolce di una serata ricca di emozioni.
È opinione diffusa che da un po’ di tempo a questa parte il rock sia un genere piuttosto bistrattato in Italia, eccezion fatta per i gruppi storici che entrano nella categoria degli artisti ritenuti intoccabili. Ai Limeoni (pronunciato “làimoni”) questo sembra però non importare, e “rock” è l’unico termine che può descrivere la loro anima musicale.
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