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Le sfumature dell’amore: orchestra e coro dell’Opéra de Lyon

Che cosa, se non l’amore, ha il potere di elevare l’animo umano verso paradisi incontaminati, dove il tempo si sospende e la realtà diventa sogno? L’amore, con le sue gioie e sofferenze, è da sempre musa ispiratrice dei compositori di ogni epoca e, il 14 settembre 2024, MiTo Settembre Musica ha scelto questo sentimento come filo conduttore della serata, proponendo un viaggio sonoro e immaginifico. Un doppio concerto, all’Auditorium Giovanni Agnelli, che vedeva come protagonista – e artefice della scoperta delle più sottili sfumature sonore ed emotive – l’orchestra dell’Opéra de Lyon diretta da Daniele Rustioni, interprete acclamato dai principali teatri d’opera internazionali.

Foto di Ottavia Salvadori

Cina e Francia (in prima serata) e Grecia (in seconda serata) sono i luoghi da cui provengono le tre storie che stimolano la creatività dei compositori, i cui brani sono stati eseguiti magistralmente e con un’intensità emotiva che spinge verso i limiti dell’immaginazione.

La leggenda cinese del dio del cielo e della dea delle nuvole, narrata nel poema sinfonico Les eaux célestes da Camille Pépin, è una storia d’amore dipinta in quattro piccoli, ma intensi, quadri: i primi movimenti armoniosi degli archi, sembrano subito aprire una porta che fa accedere ad un mondo incantato e naturale. Un tappeto sonoro tessuto da archi e fiati dapprima è caratterizzato da suoni impalpabili e sfumati che fanno emergere progressivamente le note acute dei flauti traversi e, infine, si trasforma in un movimento meccanico, vorticoso, con note reiterate. Scelta musicale che ha radici dirette nella leggenda: un preannuncio all’arrivo degli uccelli, gli unici che attraverso la costruzione di un ponte permetteranno ai due amanti di ritrovarsi e la rappresentazione sonora dell’orditura e tessitura delle nuvole.
Un brano caratterizzato da un climax sonoro crescente che segue l’andamento della storia. La tensione cresce, la densità sonora aumenta, gli archi si fanno più agitati, i colori sembrano sempre oscillare tra scuri e limpidi, dando l’impressione che il mondo fantastico sia sempre un posto felice, sicuro e tranquillo anche nel momento del dolore.

Foto di Ottavia Salvadori

Di tutt’altro colore è il poema sinfonico di Schönberg, più oscuro e malinconico. Pelleas und Melisande è una storia d’amore tragica, un dramma che ha stimolato diversi compositori, tra cui Debussy che ne trae un’opera lirica e lo stesso Schönberg che, al contrario, propone un poema sinfonico per orchestra, lasciando spazio ai soli strumenti di rappresentare i sentimenti e il tormento d’amore che porta alla morte. Un giovane compositore, Schönberg, che ancora non ha sviluppato a pieno le tecniche dodecafoniche, ma che crea un’opera intensa e complessa, dove i suoni si intrecciano e scontrano.
Il palco si riempie di strumenti, l’organico si amplia soprattutto nella sezione dei fiati con tromboni, trombe, corni inglesi, clarinetto basso, oboi, fagotti e molti altri.
Alle orecchie del pubblico, l’opera appare come una narrazione fluida che attraversa diversi stati emotivi passando dalla calma melodica – ma sempre incerta – a momenti di massima tensione tragica con cambi rapidi di intensità e motivi dissonanti ricchi di passaggi contrappuntistici. Ogni personaggio sembra avere il suo tratto caratteristico e questo porta ad un continuo mescolamento di motivi differenti per atmosfera e nuance.

Il pubblico, curioso di riascoltare nuovamente l’orchestra, non si è lasciato sfuggire l’opportunità di assistere anche al secondo concerto in programma. Dopo un momento di convivialità, tra cibo e bevande, è il momento di tornare nel luogo dove tutto ha avuto inizio: la sala dell’auditorium che ha rivisto occupate tutte le sue sedute.
Procede dunque la serata; questa volta sul palco anche il coro dell’Opéra de Lyon, composto da una quarantina di elementi, per eseguire Daphnis et Chloe di Ravel: “sinfonia coreografica” – come la definisce lo stessocompositore – che accompagna il pubblico attraverso la storia tragica, ma a lieto fine, del pastore Dafni e della sua amata Cloe.
L’orchestra amplia nuovamente il suo organico con la macchina del vento e nuovi strumenti a percussione, tra cui xilofono e campanelli. Violoncelli prima, e arpe poi catapultano nuovamente il pubblico in un mondo onirico, con note in pppp quasi impercettibili;si aggiungono poi i corni che introducono la linea melodica, proseguita dal flauto traverso. Una melodia intima e serena, ma che porta con sé sin dall’inizio un velo di inquietudine che viene ulteriormente giustificato dalla presenza del coro. La voce, che dà vita ad un canto senza parole, è utilizzata come un vero e proprio strumento musicale che si amalgama e intreccia con l’orchestra. La tensione man mano cresce, così come l’intensità dei suoni che riverberano nella sala arrivando a toccare le corde più intime di ciascuno. La partitura, soprattutto nel secondo quadro, prevede un continuo alternarsi di momenti di calma spirituale a momenti tragici ed energici e la continua mutazione dei temi rende la composizione ricca e mai noiosa.

Foto di Ottavia Salvadori

Daniele Rustioni ha diretto in maniera straordinaria l’orchestra; l’intensità emotiva dei brani non solo si poteva fruire con le orecchie ma anche con gli occhi: i movimenti del direttore, l’energia e la passione espressa dal suo volto hanno dimostrato quanto la musica riesca ad entrare e toccare l’animo di ciascuno. L’orchestra di Lione, così come il coro, è riuscita perfettamente a trasmettere la dolcezza e la tragicità dei brani e i sentimenti, modulando i suoni con grande maestria ma risultando sempre delicati anche nei momenti più intensi.

Due concerti che hanno trasformato la sala dell’auditorium in un teatro d’opera o, per gli appassionati di film, in una sala cinema: uno spettacolo senza immagini e senza attori ma con una musica che è capace di creare reazioni sinestetiche di grande potenza.

A cura di Ottavia Salvadori

Edoardo Bennato a Bard per Aostaclassica

Aostaclassica inaugura il mese di agosto al Forte di Bard, affascinante nella sua versione serale, con la carica di energia che da sempre Edoardo Bennato trasmette al suo pubblico. Oltre due ore di performance ininterrotta di un musicista, cantautore e polistrumentista le cui canzoni sono parte della storia della musica italiana. L’irriverente intelligenza che lo contraddistingue è al servizio di messaggi mai scontati, sempre attuali, presentati sagacemente per captare l’attenzione in modo ludico su tematiche sociali importanti.

Bennato, indossando la storica maglia Campi Flegrei 55, apre il concerto enunciando: «Coltivate i dubbi, non barrichiamoci nelle nostre certezze!». Accompagnandosi con l’immancabile chitarra, l’armonica a bocca e il kazoo da l’input al pubblico con una serie di evergreen: “Abbi dubbi”, “Sono solo canzonette”, “Il gatto e la volpe” tra le altre. 

foto di Joy Santandrea

Nel crescente entusiasmo salgono sul palco anche gli altri musicisti della band che dimostrano la loro grande professionalità spaziando nei generi musicali, rock in primis, e in assoli o improvvisazioni che energicamente incantano e coinvolgono il pubblico. La bravura emerge in particolare nel brano intitolato “A Napoli 55 è ‘a Musica”, ispirandosi alla smorfia napoletana. Con un linguaggio poetico e diretto Bennato dipinge un ritratto affettuoso e realistico della sua Napoli catturandone l’anima, la vitalità e le sue contraddizioni. Il tutto narrando l’infanzia a Bagnoli e il suo percorso professionale diviso tra gli studi di Architettura a Milano e l’amore per la Musica ancor’oggi condiviso con gli amici del cortile. Si diverte quando, con aria scanzonata, sollecita il pubblico a canzonarlo e additarlo ironicamente come “Rinnegato, sei un rinnegato. Non ti conosciamo più!” o “Tu sei un, ah ah, cantautore” sottolineando la risata sarcastica «ah ah!». 

Immancabile la sua dichiarazione d’amore al genio di Collodi: “Fata”, dedicata alla condizione di molte donne, “Mangiafuoco”, rock satirico e pungente verso i politici di ogni schieramento. Brani sempre attuali nei contenuti che vengono affiancati da new entry quali “Mastro Geppetto” col suo divertente videoclip.

foto di Joy Santandrea

Non può certo mancare il suo taglio critico e provocatorio: da amante dell’opera buffa di Rossini ha riarrangiato in modo rock l’aria “La calunnia è un venticello” dal Barbiere di Siviglia, in un brano dedicato allo scandalo di Enzo Tortora e alla grande Mia Martini. Data questa ‘tirata d’orecchie’, qualche brano dopo, dedica al popolo italiano un ‘dissacrante’ elogio in “Italiani”, canzone meglio conosciuta come “Dicono di noi” mentre, a fondo palco, il visual scorre splendide fotografie di personaggi che hanno valorizzato in ogni campo il Belpaese.

Un’attenzione particolare è rivolta ai temi della guerra e dei migranti. Riferendosi a tutte le guerre nel mondo canta: “A cosa serve la guerra”, col ritmo di walzer scelto proprio per la sua inutile circolarità, o la ballata acustica alla Bob Dylan di “Pronti a salpare”. Entrambe le canzoni, accompagnate con screen di scene intense, sono tra i momenti più toccanti. Riprendendo coi classici “Venderò”, “In prigione”, “Le ragazze fanno grandi sogni”, proseguendo poi coi brani ispirati a Peter Pan, “L’isola che non c’è” e “Il rock del Capitan Uncino”, esalta il suo pubblico intergenerazionale. 

La carica vitale, provocatoria e reazionaria di Bennato, l’ottima organizzazione/performance visuale, un’illuminotecnica di alto livello e la professionalità musicale degli strumentisti hanno reso energetico e indimenticabile questo concerto. Lo sfondo storico del Forte, la scritta Aostaclassica che capeggia a fondo palco e il rock-swing-blues di Bennato: un mix esperienziale travolgente.

a cura di Joy Santandrea

Il rock next generation infiamma il Rockish Festival

Lo scorso giovedì 12 luglio ha avuto luogo il Rockish Festival. Sette band, rappresentanti la nuovissima scena rock torinese, si sono esibite alternandosi tra main e side stage per quattro ore ininterrotte di musica rock declinata in tutte le sue forme. Una scelta che riesce a portare sul palco dello Spazio211 diversi progetti artistici, tra cui anche gruppi di giovanissimi under 25, che ormai rappresentano un punto di riferimento per il rock torinese

Nonostante la presenza della band di fama internazionale, i Melody Fall, la protagonista della serata era proprio la next generation. Dal pop punk al rock di protesta e all’art pop, la line up di quest’anno propone i progetti di I boschi bruciano, Narratore Urbano, Irossa, Xylema, Tramontana, Breathe me in.

Foto di William Fazzari

I Narratore Urbano nascono nel 2019 definendo, da subito, la volontà di coniugare il rock ad una finalità diversa dell’esibizione fine a sé stessa. Hanno una voce e affermano di volerla usare -e lo fanno bene‐ anche per pronunciarsi su tematiche sociali e politiche.

Gli Xylema ripartono e convincono dopo un cambio di formazione e, dal Reset Festival 2023, sono una certezza del panorama torinese con un sound punk rock e melodie d’impatto. Da poco i loro testi sono in italiano e trattano delle loro esperienza personali.

Foto di William Fazzari

Irossa sono l’ultima novità dell’underground sabaudo. Di impatto è sicuramente l’immagine definita e contemporaneamente caotica, pienamente colta nelle grafiche del loro merchandising, nell’outfit e nei loro movimenti durante la performance.

Camaleontici. Se in un primo momento si è trasportati dal sax in una dimensione onirica e malinconica, un attimo dopo l’attenzione viene rubata dalle chitarre, decise e mai aggressive, che accompagnano, chi ascolta, alla comprensione delle immagini suscitate dai loro testi.

Foto di William Fazzari

L’inconveniente della pioggia non ha fermato il pubblico che, seppur ridotto, ha saputo compensare in energia e partecipazione. Cantando e ballando il repertorio di tutti gli artisti, hanno sicuramente contribuito alla realizzazione di una serata piacevole all’insegna della scoperta musicale.

Foto in copertina di William Fazzari

Dall’oscurità alla luce: il Trittico di Puccini

Dopo la presentazione del 12 giugno tenuta da Susanna Franchi al Piccolo Regio, il Trittico è andato in scena il 18 giugno per l’Anteprima Giovani. L’opera è formata da tre atti unici: Il Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi composte da Giacomo Puccini (su libretto di Giacomo Adami per Suor Angelica e Il Tabarro mentre il testo di Gianni Schicchi e di Giovacchino Forzano) tra il 1913 al 1918. La prima rappresentazione è avvenuta il 14 dicembre del 1918 al Metropolitan Opera di New York.

Le vicende nel Tabarro narrano un dramma ambientato su di una chiatta sulla Senna a Parigi. Racconta la storia di gelosia e omicidio del triangolo amoroso tra Michele, Giorgetta e l’amante Luigi.
Suor Angelica porta in scena un soggetto con tono lirico e drammatico ambientato in un convento. La trama segue la storia della protagonista Suor Angelica, la quale è stata costretta a prendere i voti dopo aver avuto un figlio illegittimo. Dopo la scoperta della morte del figlio, la donna compie un atto disperato di suicidio, seguito da una visione di redenzione. Gianni Schicchi è una commedia vivace basata su un episodio dell’Inferno di Dante Alighieri. Racconta le vicende del protagonista Gianni Schicchi, uno scaltro popolano che inganna una famiglia per assicurarsi l’eredità di un ricco defunto a favore della figlia e del suo amante.

L’ouverture viene eseguita a sipario chiuso per introdurre i principali temi musicali preparando il pubblico all’esperienza narrativa che seguirà.
Il regista Tobias Kratzer e lo scenografo Rainer Sellmaier propongono nel Tabarro un allestimento dalle tonalità scure ed ombrose.
Sono presenti quattro quadranti in rimando all’impaginazione dei fumetti, in cui si svolgono le vicende dei protagonisti accompagnati dai cantanti del coro: il primo quadrante in alto a destra presenta la struttura della chiatta con sfondo rosso di immagini di grattacieli, il secondo in basso a destra raffigura la stiva con sfondo bianco, il terzo in alto a sinistra rappresenta una cabina con un letto e una televisione con sfondo arancio e nel quarto quadrante in basso a sinistra abbiamo il boccaporto in cui si staglia la visione della chiatta nel mare con sfondo azzurro. Ed infine sul lato destro abbiamo incorporata nella struttura scenografica una televisione, che trasmette al pubblico una sitcom che è vista dallo stesso Michele nel Tabarro, che fa da filo conduttore in rimando a Gianni Schicchi con la morte di Buoso Donati.

Il Tabarro

Per Suor Angelica la scelta scenografica è ricaduta sull’utilizzo di un video in bianco e nero con qualche accento di colore rosso delle immagini: sullo sfondo un cortometraggio della vita monastica condotta dalle suore; che viene scandita in ogni ora del giorno. Intanto le cantanti primarie e il coro femminile si trovano sedute in scena, in rimando al giardino del convento. Il video viene frammentato dall’arrivo di un giornalino proibito che viene consultato da una suora (oggetto del peccato che rimanda alle vicende scabrose che si sono susseguite precedentemente nel Tabarro) e dal desiderio compiuto di un’altra suora nel voler mangiare cibo non consentito come la cioccolata (evidente il rimando al terzo cerchio dei golosi dell’Inferno di Dante Alighieri nella Divina Commedia).

Suor Angelica

In Gianni Schicchi la scenografia è costituita del pubblico seduto sulle
gradinate in scena, che osserva da “voyeur” la storia della famiglia come se fosse in uno studio televisivo. In scena vengono inseriti oggetti per simulare la casa del morente Buoso Donati: un mobile smontabile in più parti, vettovagliamento, asciugamani, un giradischi e un frigorifero colmo di bottiglie di vino. Il cast dei cantanti inizia a smontare la scena alla ricerca del testamento nascosto da Buoso Donati nella busta del disco di Suor Angelica e intanto arriva Gianni Schicchi per la risoluzione dei problemi; il quale sposta il cadavere del morto tra il pubblico fingendosi egli stesso il malato per poter mettere su carta le ultime volontà testamentarie a favore della figlia e del suo amante. Il finale si conclude con l’arrivo in scena dall’alto di una lussuosa vasca idromassaggio in cui i due amanti amoreggiano divertiti.

Gianni Schicci

Bern Purkrabek, alla luminotecnica, è stato in grado di far immergere lo spettatore grazie al contrasto tra il buio delle scene e i giochi di luci colorate all’interno dei blocchi nel Tabarro, l’utilizzo di luci bianche fredde in Suor Angelica per esaltare il video sullo sfondo e per ricreare una dimensione intima e castigata in rimando alla vita di clausura delle suore, mentre in Schicchi le luci sono tutte puntate sui cantanti per esaltare la frenesia e la concitazione delle scene.

Grande lavoro è stato svolto dal Coro del Teatro Regio con la direzione di Ulisse Trabacchin e dalle Voci Bianche dirette da Claudio Fenoglio: pur non essendo così compresenti in scena, hanno saputo esaltare la dicotomia dei sentimenti contrastanti “del bene e del male” dei protagonisti in tutte le sfaccettature e hanno saputo dar voce ad ogni singola emozione provata.
Giorgetta insoddisfatta della vita di coppia (interpretata dal soprano Elena Stikhina) moglie di Michele, proprietario della chiatta (interpretato dal baritono Roberto Frontali) il quale teme che la moglie lo tradisca con il giovane scaricatore Luigi (interpretato dal tenore Samuele Simoncini).
Suor Angelica è la protagonista, una giovane suora dal passato doloroso (interpretata dal soprano Elena Stikhina) avrà un duro scontro con la Zia Principessa (interpretata dal contralto Anna Maria Chiuri) ricevendo conforto dalla suora amica Genovieffa (interpretata dal soprano Lucrezia Drei).

Suor Angelica

Gianni Schicchi popolano fiorentino (interpretato dal baritono Roberto Frontali) che ha abilità nel risolvere con astuzia i problemi, viene chiamato dalla famiglia Donati per modificare il testamento del defunto Buoso Donati e destinando tutti gli averi alla giovane figlia Lauretta (interpretata dal soprano Lucrezia Drei) innamorata di Rinuccio nipote del Buoso (interpretato dal tenore Matteo Mezzaro).
I cast dei cantanti nel Trittico hanno saputo rendere giustizia alle tre opere messe in scena grazie alla grande abilità vocali e interpretative. Particolare nota al soprano Elena Stikhina nel Tabarro e in Suor Angelica per il bellissimo timbro vocale, alla significativa morbidezza nell’emissione dei suoni e all’abilità nei filati, in Gianni Schicchi al soprano Lucrezia Drei per il raffinato registro centrale, alla grande facilità di emissione degli acuti e nell’emissione dei pianissimi ed infine al baritono Roberto Frontali per la grande esperienza maturata in carriera sia vocalmente parlando che per la grande presenza scenica.

Gianni Schicci

La direzione orchestrale è stata affidata alle mani sapienti del direttore d’orchestra Pinchas Steinberg, ha espresso una da una profonda comprensione delle dinamiche orchestrali e dai giochi di colore tra le opere mantenendo una coesione stilistica complessiva: nel Tabarro ha saputo definire un’atmosfera cupa attraverso la gestione degli archi e degli ottoni, in Suor Angelica ha creato una dimensione lirica e contemplativa grazie all’impiego dei legni e degli archi ed infine in Gianni Schicchi ha ottenuto un suono brillante grazie agli strumenti a fiato per sottolineare i momenti ironici e di scherno.
Nel Trittico, vengono trattati temi unificanti e disgreganti come l’amore, la passione, la morte e la redenzione: l’amore coniugale in crisi nel Tabarro che si conclude con un omicidio, l’amore materno e il desiderio di redenzione in Suor Angelica che si conclude con un suicidio sperato nella redenzione, o l’amore giovane e spensierato tra Lauretta e Rinuccio in Gianni Schicchi con la morte di Buoso Donati attorno a cui ruotano gli inganni.

A cura di Angelica Paparella

Al Flowers Festival, dopo la tempesta arriva Fulminacci

Sono le 21:30 dell’11 luglio e il maltempo sembrava pronto a boicottare una delle ultime date del Flowers Festival. Dopo qualche speranzosa preghiera, Mazzariello sale sul palco solo mezz’ora dopo, dando così inizio alla terzultima serata del festival.

Il compito del musicista napoletano, accompagnato alle tastiere da Giuseppe Di Cristo, è quello di apertura a Fulminacci. Nonostante si tratti di un incarico sempre abbastanza difficile, Mazzariello viene promosso a pieni voti dal pubblico: ne coinvolge una buona parte grazie alla parlantina spigliata nonostante l’emozione, e riesce a farsi accompagnare da un bel coro. Saluta il pubblico con “Pubblicità progresso” − brano conosciuto in quanto colonna sonora della serie Summertime − che unisce alla cover del brano di Frah Quintale ft Giorgio Poi, “Missili”. 

Dopo un (non molto rapido) cambio palco si abbassano le luci, i musicisti si posizionano sulla scena e parte una sorta di messaggio preregistrato. Inizialmente chiede di spegnere i cellulari ma poi, correggendosi, chiede non solo di tenerli accesi e di fare qualche storia per Instagram, ma anche di ricordarsi di taggare tutta la band, compreso il tastierista «che sennò si offende». 

foto di Alessia Sabetta

Sale sul palco Fulminacci − vestito da un completo giacca gilet + pantaloncino in silver e maglietta della Nasa, con scritto “Spacca” − con la chitarra e, sullo sfondo del ledwall, con “Borghese in Borghese” inizia il concerto.

Fulminacci in live è come l’aglio nell’olio: sfrigolante e un ottimo insaporitore. Di sicuro la band di supporto (composta da Roberto Sanguigni al basso, Lorenzo Lupi alla batteria, Riccardo Nebbiosi al sax baritono e tenore, Giuseppe Panico alla tromba, Riccardo Roia alle tastiere e Claudio Bruno alla chitarra), conferisce il quid in più per trasformare una semplice “Aglio e olio” in una buonissima AglioOlio&Peperoncino. La dimensione del live è curata benissimo: i musicisti si muovono sul palco coreografando dei passetti di danza semplici ma d’effetto, che ben si incastrano con l’atmosfera musicale un po’ anni ‘80. Dal vivo, infatti (più che in studio), sono enfatizzate quelle sonorità underground hip hop e funk con i tempi in levare e l’accompagnamento energico dei fiati. 

foto di Alessia Sabetta

Ovviamente, non manca il momento malinconico al pianoforte sulle note di “Le biciclette” e “Una sera” e l’arrivo a sorpresa di Willie Peyote per “Aglio e Olio”. Dopo la momentanea uscita di scena, gli artisti salgono nuovamente sul palco per poi congedarsi definitivamente dopo Tommaso e «la canzone con cui ho perso il Festival di Sanremo», “Santa Marinella”, accompagnata dal canto a cappella e ad libitum del pubblico incitato dagli artisti sul palco. 

Un live, quello di Fulminacci, degno di essere chiamato tale: buon intrattenimento, buona musica, pubblico soddisfatto e artisti altrettanto. What else?

a cura di Alessia Sabetta

Elio e le Storie Tese: il tempo passa ma loro restano

Ultime luci della giornata sul pubblico del Flowers Festival, palco leggermente illuminato. Una voce cadenzata, da dietro le quinte, inizia a recitare un’omelia per ascoltare musiche un po’ stupide «che acquisiscono un senso sotto il segno del Cristo». Verrebbe da chiedersi perché ci si è ritrovati in una messa indesiderata durante una serata d’estate, precisamente quella del 6 luglio. Invece, è il concerto di Elio e le Storie Tese che aprono così lo show del tour “Mi resta solo un dente e cerco di riavvitarlo”, entrando in scena tutti vestiti di bianco. 

Un concerto all’insegna della musica sparkling, come spesso ripete Elio, tra prosa e poesia, fiabe e attualità. Tanti sono i momenti di interazione con il pubblico in cui Faso (bassista) e Vittorio Cosma (tastiere) raccontano aneddoti per presentare alcuni brani: come la narrazione tratta dal libro di fiabe per analfabeti per “Il vitello dai piedi di Balsa” o la descrizione delle fasi di trasformazione da uomini a “Servi della gleba”

foto di Alessia Sabetta

Sulla scena anche Cesareo (chitarra), seduto un po’ in disparte; Paola Folli (voce, cori, tamburello); Antonello Aguzzi (tastiere e coro); Paolo Rubboli e Riccardo Marchese (batteria e percussioni). Questi ultimi due, i più giovani, sono costretti tramite una cerimonia, a scambiarsi le postazioni per un’imposizione dello SBURRE − il Sindacato Batteristi Uniti per il Rock and Roll Elvetico − al fine di non far terminare i colpi a disposizione. Rubboli e Marchese, in realtà, sono i sostituti di Christian Meyer che − tramite un annuncio − aveva spiegato che, a causa della sua passione per i pinoli, ne aveva fatto un consumo eccessivo tanto da provocargli «effetti imprevedibili ed indesiderati» da non poter prendere parte al tour. A grande sorpresa però, per il bis, appare sul palco, presentato come il direttore dello SBURRE, Fritz Meyer, fratello gemello di Christian. Il batterista, teletrasportatosi dal quartiere generale a causa del termine dei colpi disponibili, si assume il compito di sopperire al disagio e, per quanto i due ragazzi siano tecnicamente preparati per stare dietro alla band, appena Meyer impugna le bacchette, si sente subito la differenza. 

L’immancabile Mangoni vestito da Supergiovane, soubrette con le ali fucsia da danza del ventre, in completo total silver o rosso a cuoricini bianchi, completa l’allegro quadretto arrampicandosi sulle impalcature e saltellando o ballando qua e là.

foto di Alessia Sabetta

Lo spettacolo è tutto quello che ci si potrebbe aspettare dalla stravagante band: ironia, pungenti battute a sfondo politico, irriverenza e consapevolezza che è tutto ciò che la cancel culture abolirebbe. Nonostante il tempo sembri aver fatto il suo decorso anche per loro, i fan continuano a incitarli a suon di “forza Panino” perchè, malgrado tutto, gli Elio continuano a risultare sempre geniali e musicalmente molto più che validi. 

a cura di Alessia Sabetta

Venerus è una scatola di cioccolatini e al Flowers Festival se n’è assaggiato qualcuno

Venerus è una di quelle scatole di cioccolatini con i gusti assortiti e le combinazioni più improbabili. “Istruzioni”, per esempio − brano d’apertura dell’album Il Segreto − il 3 luglio al Flowers Festival è un cioccolatino fondente (80%) con ripieno all’ananas e cocco. La canzone, come il cioccolato fondente, ha la capacità di farti piangere al primo accordo; ma è stata riarrangiata per l’occasine con una base hawaiana dalle vibes da cocktail nel cocco e ghirlanda di fiori. «Se dovete dichiaravi a qualcuno fatelo adesso», l’ha presentata così al pubblico un po’ stranito dalla (piacevole) dissonanza.

Nella stessa scatola anche il cioccolatino al latte: semplice, mai stucchevole e sempre apprezzato come “Sei acqua” − anche questa riarrangiata per l’occasione − pianoforte e voce. Lui, emozionato e con la voce spezzata sul finale, fa sì che il pubblico si chiuda in un abbraccio collettivo, perché in fin dei conti la canzone – che nella versione originale vede la collaborazione con Mace e Calibro 35 – fa sentire tutti gli ultimi romantici.  Poi la cover di “Vita spericolata”, il cioccolatino un po’ liquoroso, quello che rimane sempre alla fine, per gli amanti del genere o per i più temerari che pur di mangiare della cioccolata accettano di ingurgitare il liquidino amaro.  

foto di Alessia Sabetta

Una box alla tuttuigusti+1 che fa accettare la possibilità di un cioccolatino meno buono, perché l’esperienza di assaggio vale molto di più. Del resto, l’artista ha la capacità di coniugare tantissimi generi musicali spaziando dal R&B, al soul, al Jazz, per creare brani che, come pralinati ben fatti, sono paragonabili a dei gioiellini.

Cioccolatini a parte, Venerus, attualmente è tra le voci e penne più interessanti del panorama musicale italiano e ciò che lo contraddistingue è che incarna l’ideale di libertà.  

Sul palco non sembra essere incatenato da codici di comportamento particolari: semplicemente, stabilizzato sulla sua frequenza (cfr Resta qui), si lascia guidare dall’istinto, si muove in balli ondeggianti, si prende qualche istante per un sorso di whisky qua e là, ride mentre canta. Addirittura, interrompe il concerto per una cerimonia di incoronazione del tecnico di palco come principe di Torino. Cerimonia degna d’essere chiamata tale, con una corona (di fiori confezionata meticolosamente da lui stesso, ma sgualcita dopo essere rimasta conservata in tasca) e un’aura tra il sacro e l’onirico, che Buñuel a stento sarebbe riuscito a ricreare.In tutto ciò, il pubblico sembra non essere sorpreso perché da Venerus ci si potrebbe aspettare qualsiasi cosa e proprio per questo nessuno si fa domande, accettando tutto per come viene, perché Vinnie è libero e questo il suo pubblico lo sa.

foto di Alessia Sabetta

Quindi si: Venerus è una scatola di cioccolatini di cui non si può fare a meno, anche se ci sono gusti improbabili o c’è il rischio di incappare in quello che ti fa storcere il naso.  Ma si tratta pur sempre di (un buon) cioccolato ed è difficile non apprezzarlo.  

a cura di Alessia Sabetta

Der fliegende Hollander al Teatro Regio e la lettura di un Wagner più psicologico del necessario

Dopo la presentazione durante la conferenza-concerto al Piccolo Regio, Der fliegende Holländer – L’Olandese Volante è andato in scena l’8 maggio per l’Anteprima Giovani (rassegna del Teatro Regio quasi giunta alla fine della stagione 2023-2024). 

L’opera lirica in tre atti, composta da Richard Wagner (che ne è anche il librettista) nel 1843, è incentrata su una leggenda nordica. Il protagonista, l’Olandese, è il capitano di una nave, condannato a navigare per l’eternità senza poter mai toccare terra, a meno che non trovi una donna che si innamori di lui e gli sia fedele fino alla morte.

L’Ouverture eseguita a sipario chiuso ha aumentato l’attesa e la suspence ma allo stesso ha fatto sì che gli spettatori, non distratti dalla scenografia, fossero rapiti dalla magnifica sinfonia wagneriana.

Dalla cartella stampa del Teatro Regio

Il regista Willy Decker, ha realizzato un allestimento minimalista total white: una stanza quadrata obliqua, sfruttando il gioco dell’inclinazione del palco, creava un effetto ottico che risulta un po’ straniante. Ispirandosi alle pareti di un museo d’arte in cui siamo seduti ad ammirare un quadro con il mare in tempesta come quelli della scuola fiamminga del XVII secolo, l’atmosfera generale risulta magrittiana e riprende sia i colori che l’essenza dei personaggi di opere come L’impero della luce o Golconda.

Anche le scene, realizzate da Wolfgang Gussmann, risultano alquanto minimali. Un fondale rosso e uno blu in contrasto con le pareti bianche per una maggiore suggestione visiva e un’intuizione geniale: una porta automatizzata e dalle notevoli dimensioni da cui escono le cime della nave di Daland da poter ancorare al palco, che rimandano alla riva in cui si trova anche il veliero olandese. In scena vengono inseriti pochi oggetti essenziali e quotidiani: sedie, tavoli, bottiglie e una tovaglia, che creano una maggiore coesione visiva e una dimensione rituale-popolare da parte dei cantanti del coro del Teatro Regio e del Maghini in relazione allo spazio e al tempo scenico del libretto in cui le donne filano e i marinai brindano. Stesso nome per la realizzazione dei costumi – scelti attentamente effettuando una corretta ricerca dei tessuti, dei materiali e delle fogge – per i quali si è voluto rimanere nei canoni classici di vestizione.

Hans Tölstede, alla luminotecnica, è stato in grado di far immergere lo spettatore grazie ai giochi di luci fredde, calde e colorate per ricreare la dimensione concitata e spaventosa del mare in burrasca, sul corpo del cantante interprete dell’Olandese o sulle pareti con la costruzione delle ombre. 

Dalla cartella stampa del Teatro Regio

La sezione corale, affidata a Ulisse Trabacchin, ha reso vive e dinamiche le scene amplificando i sentimenti dei personaggi principali immersi nella tempesta di emozioni contrastanti della storia d’amore, destinata in breve tempo a cessare. La giovane Senta (interpretata dal soprano Johanni Van Oostrum), innamorata della leggenda dell’Olandese e desiderosa di salvarlo, viene promessa all’Olandese (il baritono Brian Mulligan) dal padre Daland (il basso Gidon Saks), in cambio di una ricca ricompensa nonostante l’amore non corrisposto del cacciatore Erik (il tenore Robert Watson). Il Cast dei cantanti primi si è destreggiato egregiamente pur facendo fronte a una partitura complessa che richiede struttura vocale compatta, buon fraseggio e grande capacità di controllo diaframmatico nel reggere le tessiture articolate della composizione wagneriana. Particolare nota al baritono per il bellissimo colore vocale e alla significativa morbidezza nell’emissione e al soprano per l’elegante registro centrale e alla grande facilità di emissione degli acuti.

Infine, non per importanza, la direzione orchestrale affidata alle mani sapienti della direttrice d’orchestra Nathalie Stutzmann, è apparsa ricca, innovativa e in grado di far evocare alle menti il mare, la tempesta e le atmosfere drammatiche. Il volume di tutti gli strumenti è rimasto morbido per tutta l’esecuzione e le dinamiche non sono mai risultate impetuose come ci si aspetterebbe dall’esecuzione di qualsiasi brano di stampo wagneriano. 

L’Olandese Volante si conclude con un finale tragico in cui risaltano i temi della redenzione attraverso l’amore fedele e il sacrificio di Senta che, gettandosi in mare, rompe la maledizione dell’uomo che ama. Nella rappresentazione, tuttavia, Senta non si getta nelle onde del mare, ma si accascia in mezzo alla stanza generando una lettura più cerebrale dell’opera. Rimane quindi un amaro in bocca dovuto al mancato lieto fine e alla necessità di rileggere la storia e i tumulti dei personaggi in una chiave molto più psicologica di quella presentata da Wagner. La serata si è così conclusa con la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di potente come solo Wagner avrebbe potuto concepire, pur con qualche perplessità sulla staticità della scena (mai modificata nel corso dell’opera). 

a cura di Angelica Paparella e Alessia Sabetta

IL GRANDE RITORNO DELL’OPERA “LE VILLI” A TORINO

Il cartellone del Teatro Regio prosegue – dopo la Bohème, La Rondine e La fanciulla del West – con il suo omaggio a Giacomo Puccini in occasione del centenario dalla morte.
Le Villi, opera d’esordio del compositore, dopo 140 anni dalla sua prima rappresentazione in forma ampliata – in due atti – al Teatro Regio, viene nuovamente messa in scena a Torino in una produzione del regista Pier Francesco Maestrini con la direzione di Riccardo Frizza il 18 aprile 2024 con l’anteprima giovani – format che sta avendo sempre più successo tra gli under 30. Un’opera-ballo di soli due brevi atti, della durata di poco più di un’ora, che coinvolge lo spettatore in una storia d’amore. Come spesso capita gli amori operistici finiscono in una tragedia ma la tragedia de Le Villi viene mascherata da creature leggendarie e notturne che popolano i boschi, contrapponendo così l’idillio iniziale del primo atto al sinistro epilogo del secondo.
Vediamo già un Puccini in grado di mescolare influenze diverse, dall’Italia ottocentesca degli scapigliati al romanticismo tedesco sinfonico (“La tregenda”) fino ad arrivare alle influenze francesi con la danza: il tutto colorato da un clima fantastico-infernale che culmina nella danza delle magiche Villi in un rito di vendetta per l’amore perduto.

Foto dal link https://www.teatroregio.torino.it/area-stampa/comunicato-stampa/le-villi

La regia di Maestrini riesce a trasportare sin da subito lo spettatore nel  clima fantastico ma cupo delle Villi: a sipario aperto vengono proiettate immagini in movimento di una tetra foresta al chiaro di luna, quasi a presagire quanto accadrà nel secondo atto. Un escamotage, quello dello schermo, sia per dividere il proscenio dalla scena, sia per mettere in dialogo quanto avviene nello schermo e ciò che accade dietro. La foresta nera si trasforma presto in un contesto colorato e sognante, con fondali fioriti di sapore vittoriano; non da meno sono i fastosi costumi tipici di un’epoca e una classe borghese che festeggia nella propria residenza: un eden onirico e festoso in cui i personaggi cantano, danzano e sognano. Ben presto però questo clima di festa spensierata si conclude con i rintocchi della campana che introducono il concertato-preghiera. L’intermezzo sinfonico si apre con un voice over narrante che introduce il rito funebre di Anna, morta per amore. Come indicato sul libretto, la scena si svolge dietro al telo-schermo che filtra l’immagine del corteo funebre, accompagnato da immagini video che mostrano una donna-sposa sola in un cimitero. La regia, sacrificando parte del testo della voce narrante, è stata abile nel mostrare il contrasto tra il dolore-morte di Anna e la stanza “peccaminosa” nella quale Roberto è stato attirato: un grande quadro reclinato raffigurante una donna nuda fa da sfondo a danze dal ritmo concitato, di tarantella, che muove i corpi delle amanti di Roberto trasportandoli in una danza frenetica. La resa scenica non appare però concitata come la musica: in un momento di climax di tensioni sessuali date dalla partitura musicale, scena e coreografia risultano un po’ statiche. L’opera si risolve con l’intervento delle Villi, creature fantastiche che rappresentano gli spiriti delle ragazze tradite e morte d’amore. Ballando nelle notti di luna piena, trascinano i traditori verso la morte, aiutando così Anna − divenuta anch’essa una creatura soprannaturale − nella sua vendetta contro Roberto. Anche in questa scena la frenesia del momento è data soprattutto dalla musica, mentre la danza delle Villi, che entrano in scena a sorpresa durante il dialogo tra i due protagonisti, diventa più irrequieta nel momento in cui legano con una corda Roberto per avvicinarlo ad Anna e trasportarlo in un altro mondo, quello della morte. Visivamente molto interessante la scelta di accerchiare Roberto, legarlo e condurlo verso il suo destino ma, complessivamente, i movimenti appaiono un po’ rigidi e codificati.

Foto dal link https://www.teatroregio.torino.it/area-stampa/comunicato-stampa/le-villi

Il cast vocale di questa serata, composto dal soprano Roberta Mantegna (Anna), il tenore Azer Zada (Roberto), il baritono Simone Piazzola (Guglielmo), ha faticato a emergere  sull’impetuosità dell’orchestra. Nella scena finale, l’inquietudine di Roberto e la rivalsa di Anna si sono percepiti maggiormente nei gesti che nell’interpretazione canora. Il coro, guidato da Ulisse Trabacchin, è riuscito ad essere più d’impatto rispetto ai solisti, senza però essere di rilievo poiché coperto anch’esso dal grande sinfonismo orchestrale. L’acustica del Teatro Regio sicuramente non ha aiutato, ma le voci non hanno raggiunto il pubblico in modo incisivo e intenso.

Foto dal link https://www.teatroregio.torino.it/area-stampa/comunicato-stampa/le-villi

I giovani sono stati, anche questa volta, protagonisti della serata: non solo un giovane Puccini, ma anche una sala gremita di giovani ragazzi e ragazze interessati a scoprire qualcosa di più sul mondo del teatro musicale. Per coinvolgere maggiormente il pubblico il Teatro Regio continua, infatti, ad invitare ospiti speciali: l’invitato di questa serata è stato Pietro Morello, giovane pianista e digital content creator che con il suo entusiasmo e felicità ha presentato e raccontato – durante l’intervallo tra un atto e l’altro – la storia de Le Villi e qualche aneddoto sulla vita di Puccini.

L’omaggio al grande operista lucchese continuerà al Teatro Regio con un’ultima opera della stagione: Il trittico dal 21 giugno al 4 luglio.

A cura di Roberta Durazzi e Ottavia Salvadori

Paolo Fresu chiude il Torino Jazz Festival 2024

Anche quest’anno, il 30 aprile 2024, si conclude il Torino Jazz Festival nella giornata internazionale UNESCO del jazz. Una giornata significativa non solo per il festival ma per tutta la musica jazz che, nel corso di questi undici giorni, abbiamo imparato ad apprezzare e amare in tutte le sue forme e declinazioni. 

Stefano Zenni sul palco dell’auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto ringrazia tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del festival, lavorando con passione e con amore per la musica: dagli autisti, al personale di sala, dallo staff tecnico al pubblico e naturalmente gli artisti… la lista sarebbe lunghissima ma è soprattutto doveroso ricordare e ringraziare tutti coloro che stanno dietro le quinte, non sono visibili e non ricevono gli applausi del pubblico. La musica è un fare che si costruisce insieme, tutto e tutti contribuiscono alla creazione di un evento come questo, un festival dalla portata internazionale che unisce e crea legami. 

Sono proprio nuovi legami quelli che ha voluto creare il Torino Jazz Festival per concludere queste giornate musicali, affidando a Paolo Fresu e al suo quintetto, a Paolo Silvestri in qualità di direttore – e non solo – e alla Torino Jazz Orchestra, una produzione originale: un rapporto e un concerto nato proprio dalla collaborazione artistica del festival con gli artisti stessi. 

Paolo Fresu Quintet – foto da cartella stampa TJF

Per celebrare i quarant’anni del quintetto e l’uscita del nuovo album contenente tre dischi totalmente improvvisati, Paolo Silvestri − grande compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra che coniuga jazz e musica contemporanea con musiche popolari spaziando da opere sinfoniche a colonne sonore per film passando per composizioni per spettacoli teatrali e di danza − ha accettato la sfida di trascrivere per orchestra alcune parti dei brani improvvisati. Nasce così un dialogo continuo tra orchestra e quintetto, che sembrano due mondi apparentemente separati: l’orchestra con una formazione tradizionale e schierata mentre, sul lato opposto, il quintetto in piedi, libero di muoversi e improvvisare sui suoi stessi brani, ormai divenuti scritti e “riproducibili”. 

Dopo aver ascoltato e vissuto sulla propria pelle la carica energica di Mats Gustafsson e i The End la sera prima, il pubblico viene catapultato in un’altra dimensione del jazz: suoni morbidi, mai aggressivi, in cui i vari timbri emergono uno alla volta per poi fondersi in un’unica entità sonora.
Una forma di jazz che − se pur colorata da qualche suono più innovativo − resta legata a un lirismo toccante e un gusto narrativo che unisce e alterna dolcezza, malinconia, ritmicità ed energia, rimanendo sempre ben calibrata. Nulla è eccessivo, tutto è in perfetto equilibrio con il resto: la melodia prevale con qualche influenza blues e la tromba di Fresu trasporta la mente degli spettatori in alcuni film degli anni ’50, per poi riportarli alla realtà con qualche tema più inquietante e “minaccioso”.

Paolo Silvestri – foto da cartella stampa TJF

Quasi come se ad oggi fosse un obbligo per apparire “al passo con i tempi”, Fresu utilizza effetti di distorsione del suono e di eco che lasciano nell’aria il ricordo di ciò che si è ascoltato. Cosciente probabilmente del fatto che le sue composizioni sono già ricche e complete semplicemente con i suoni acustici degli strumenti, il trombettista utilizza con parsimonia l’elettronica che non risulta mai essere preponderante. Non utilizzare questi effetti non avrebbe tolto nulla all’esecuzione, probabilmente, invece, le avrebbe donato una maggiore aura “paradisiaca”, di “purezza” e leggerezza.  

Come bis il quintetto ha suonato “Sono andati?” dalla Bohème di Puccini – brano nostalgico e romantico – seguito da un brano di Alice Cooper, “Only Women Bleed” – il più energico della serata – nella versione jazz di Carmen McRae.

Un concerto che, anche se non ha avuto lo stesso successo di quello di Zorn (probabilmente perché la componente ritmica, che fa muovere il pubblico, è stata messa da parte per lasciare spazio al lirismo melodico), ha comunque concluso il festival mantenendo alto il livello artistico. 

Il pubblico si sta forse abituando a nuove sonorità? O forse il festival ha insegnato a comprendere quante forme e contaminazioni diverse di jazz esistono? Ora non ci resta che aspettare la prossima edizione 2025, che dopo il successo di quest’anno, speriamo non deluda le aspettative – ormai molto alte. 

A cura di Ottavia Salvadori