Andare ad un concerto dei Modena City Ramblers significa sapere già cosa aspettarsi: musicisti in kilt, discorsi sociali e pugni alzati. Eppure, nonostante sia un pattern presente ad ogni loro concerto, non si sa mai cosa aspettarsi davvero.
Appunti partigiani, disco d’oro del 2005 ripubblicato in vinile e in CD a distanza di 15 anni dalla prima uscita, sarebbe dovuto essere protagonista di un tour celebrativo che a causa della pandemia è stato annullato. Per questo motivo la band ha deciso di posticiparlo a quest’anno; con la data torinese del 18 novembre a Hiroshima Mon Amour è iniziato, invece, un tour invernale che la vedrà esibirsi nei più importanti club italiani.
La scaletta della serata prevede alcuni brani contenuti nel disco, quelli più legati alla Resistenza; ma anche i successi più famosi conosciuti ai più e lasciati esplodere alla fine. Il pubblico è decisamente eterogeno: i cinquantenni si sono accaparrati fieramente la prima fila e alla vista dei musicisti avviano una diretta Facebook, mentre alle loro spalle i ragazzi si amalgamano in un corpo unico fatto di pogo, birra e sudore.
L’allestimento è semplice: il logo della band, enorme, sulla parete posteriore è riprodotto anche sulla cassa della batteria. In scena tantissimi strumenti musicali: tra chitarre e bassi sia elettrici, che acustici, un violino, una tromba, un piffero, un banjo e tutti gli altri c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Il volume della musica è talmente tanto alto che il coro di tutti i presenti che cantano a squarciagola non riesce minimamente a emergere.
I MCR sul palco sono pieni di energia. Portano in scena la disillusione e la rabbia causate dal mondo che li circonda e le trasformano in veemenza pura. Guardano il pubblico dritto negli occhi, uno ad uno. Creano contatto con i presenti: salutano, sorridono, addirittura si mettono in posa quando si accorgono di qualcuno che sta cercando di fare loro delle foto. Si parla di migranti, di governo e di diritti. Di guerra e ingiustizie. Della necessità di rimanere umili e di ricordarsi le proprie radici. Si alzano cori che loro incitano e chiedono ai fan di rimanere sempre fedeli a quegli ideali antifascisti alla base del loro percorso musicale e quotidiano.
Non si snaturano mai. Questo è il motivo per cui andare ad un concerto dei Modena significa immaginare perfettamente cosa si sta andando a vedere. Anche a distanza di anni. Eppure, non è una cosa che stanca. Perché i loro discorsi sono fatti con l’occhio critico di chi sa esattamente cosa vuole, queste scelte si rispecchiano nella musica. Tutto si scaglia con un vigore quasi unico. E tu, più o meno fan, lo vivi in modo assolutamente attivo.
Si può chiedere al proprio pubblico imbambolato e immobile di applaudire senza cadere nel ridicolo? Se sei la PFM, sì. E se stai girando l’Italia – a 70 anni suonati – per festeggiare cinquant’anni di carriera suonando ininterrottamente per due ore, allora non solo ti è concesso, ma addirittura dovuto.
Il 16 novembre il Teatro Colosseo di Torino ha ospitato una tappa del tour “PFM 1972-2022” con cui la band progressive celebra i successi nazionali e transnazionali e i concerti, che superano ormai le 6000 date nell’arco della loro longeva carriera. A riflettere questa longevità ci pensa il pubblico in sala che, a parte per pochissimi giovani che abbassano drasticamente la media, se non ha l’età dei musicisti, manca poco.
L’apertura del concerto è affidata ai Barock Project, band che vuole unire la musica classica a rock e jazz. I ragazzi si muovono bene sul palco, dimostrano una tecnica notevole e uno stile molto simile a quello della Premiata Forneria con assoli di tastiera e cambi di tempo ben studiati. Il cantante, prima di lasciare il palco, dichiara la band come progressive e il signore seduto davanti a me si lamenta del fatto che ormai si dichiarino tutti prog. Se fosse stato più giovane avrebbe però convenuto che in un presente in cui sta spopolando l’indie, la band rappresenta una validissima alternativa nel panorama musicale giovanile.
Il teatro ritorna completamente al buio. In un silenzio pieno di fermento esplode la musica. Il concerto vuole fare un viaggio nel tempo partendo dai brani più recenti per andare indietro ai grandi classici della band. E infatti una delle canzoni più attese è “Impressioni di Settembre”, che si scaglia nel teatro come un coltello che squarcia il pubblico, ma anche come un medicamento che lenisce la ferita appena inflitta. Fanno jazz e improvvisano: a detta loro è grazie all’improvvisazione se sono ancora insieme. Suonano Prokof’ev e Rossini «con un piccolo aiuto, come l’avrebbero scritta gli autori se avessero avuto la PFM in orchestra». Lo fanno magistralmente. Dedicano uno special esplosivo a De André con cui hanno collaborato nei celebri due album dal vivo.
Franz Di Cioccio si presenta con l’immancabile bandana nera in testa e le coppie di bacchette incastrate avanti e dietro la cintura. Incarna la libertà. Randagio (il suo soprannome) sguizza sul palco: canta, balla, suona la batteria con una potenza impensabile per un settantaseienne. È lui a dominare la scena insieme a Patrick Dijvas, molto più statico. Il bassista presenta i brani con il suo accento francese quando il collega si sposta alla batteria, ma lascia parlare per lo più il suo strumento. I due “giovincelli” fanno parte della formazione originale. Con loro un altro storico componente: Lucio “Violino” Fabbri, subentrato otto anni dopo la nascita della band, che suona eccentricamente il violino con l’aggiunta di vari effetti, tra cui il wah wah, pur mantenendo una compostezza inalterabile. Sono loro a mandare avanti la baracca e, nonostante la formazione sia composta da musicisti di altissimo livello, ognuno di loro potrebbe suonare da solo garantendo uno show degno di essere chiamato tale.
Si sente la mancanza di alcuni brani celebri come “Maestro della voce” o “Chi ha paura della notte”, che il pubblico continua a richiedere. Ma al gruppo che ha scritto la storia del progressive facciamo passare anche questa.
Una standing ovation, il tempo di una foto con il pubblico e il teatro cade nuovamente in un silenzio contemplativo con la platea che si svuota lentamente: è l’unica cosa che si può fare dopo un concerto simile.
La rappresentante di lista al Teatro della Concordia
Scatta una notifica di BeReal collettiva mentre un sessantenne si lamenta della morte del vinile. I glitter, i crop top e le calze a rete, i mocassini indie, le barbe incolte, le giacche a vento in sconto dai cinesi. È il caos. È il pop. È il Teatro della Concordia di Venaria Reale che il 9 novembre ha ospitato La Rappresentante di Lista per la tappa torinese del MyMamma Tour 2022.
A luci accese finalmente si vedono le facce che pochi minuti prima erano attaccate allo schermo del telefono, sorridenti, contrite per il troppo urlare e sgolarsi, unite in un limone appassionato tra il fumo del ghiaccio secco. I glitter sono già andati via, come i bicchieri vuoti che scricchiolano sotto tacchi e anfibi, mentre la sicurezza intima agli ultimi superstiti di uscire. La magia si è rotta bruscamente ma le orecchie ancora ronzano nel silenzio della notte di Venaria, tra un discutibile paninaro che illumina il buio pesto della periferia torinese con patatine a prezzi discutibili e birre annacquate. Ma la folla sciama contenta verso le macchine e il bus notturno, soddisfatta di uno spettacolo che non ha lasciato niente al caso e ha funzionato dannatamente bene.
La Rappresentante di Lista si trovava su una strada difficile: due Festival di Sanremo di fila per un duo più o meno indie che non ha mai fatto davvero il botto possono pesare. Il limbo dei vecchi fan che si lamentano dei cambiamenti e i nuovi che vogliono ballare con le mani, con le gambe e con il culo è dietro l’angolo. Ma i Sanremo pesano soltanto se non sai cosa fare della patata bollente che ti sei tirato in mano. E Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina hanno capito esattamente cosa farne: il risultato è una pomme de terre da ristorante stellato.
Il percorso teatrale dei due è sempre più evidente: scenografia, costumi e coreografie curate al dettaglio, uno show in atti con una scaletta che sembra più una divisione in scene di una pièce piuttosto che la tracklist di un live pop. Veronica si muove sul palco come una performer contemporanea, balla, provoca, salta, dà sfoggio del suo range e della sua vocalità pulita e quasi lirica alla Antonella Ruggiero e ogni tanto si lascia andare a sorrisi emozionati che il pubblico coglie con piacere. Dario, dall’alto di stivali rossi laccati con tacco squadrato, si muove tra chitarra, microfono, pianoforte e il piccolo Mac, pentolone magico del mixing.
Con una messa in scena così curata c’è il rischio di risultare freddi e distaccati, di dare ragione a chi lamenta la svolta mainstream. Ma La Rappresentante di Lista ha pensato anche a questo, non l’ha lasciato al caso e a metà concerto Veronica rompe la quarta parete e parla direttamente ai fan, con un discorso che non sembra nemmeno preparato e anche se lo fosse, sarebbe la finzione del teatro, a cui tutti un po’ crediamo lo stesso. Crediamo anche ai pezzi vecchi e nuovi riarrangiati per incontrare meglio l’atmosfera di un tour nei club, più elettronici che mai. Crediamo a “Resistere“, ad “Alieno“, a “Questo corpo” e ad “Amare” e crediamo pure al momento dj set tamarro con musicisti e pubblico che ballano insieme M.i.a. e gli Outkast.
Se il teatro, come il pop, è finzione, quello che rende veri La Rappresentante di Lista è che non hanno un album uguale all’altro, eppure sono sempre gli stessi. E il pubblico lo sa, sotto i riflettori e la cassa dritta e a palco spento. Sotto i costumi e dietro le scenografie rimane il gusto di uno spettacolo vero, a cui si crede volentieri. Sipario, bonne nuit e ciao ciao.
Una delle frasi che più riecheggiano tratte dal film Into the Wild recita: «Chiama le cose con il loro vero nome». Eppure diventa difficile definire quello che è successo lo scorso 21 ottobre a Hiroshima Mon Amour: non un semplice concerto, non soltanto una cover band di Eddie Vedder.
Sui social e sulle locandine Magic Bus viene presentato come uno spettacolo itinerante ispirato al film e alla produzione solista di Eddie Vedder, compositore della colonna sonora del film. La giovanissima produzione dell’agenzia creativa Popcorn Gang fa la sua seconda tappa a Torino di fronte a un pubblico amante del film che rimane seduto a terra per buona parte del concerto. L’atmosfera sembra essere quella di una serata tranquilla tra amici.
La sala è illuminata di rosso, riprendendo le grafiche della locandina e lo stile dei filmati. Il tocco in più è dato da una serie di video inediti – che comprendono spezzoni del film, letture tratte dal libro, animazioni e brevi video-testimonianze di un ragazzo che in Alaska, a vedere il magic bus, ci è andato davvero – proiettati alle spalle della band per tutto il concerto. Ad accrescere il clima intimo e l’atmosfera avvolgente in cui si ha la sensazione di totale coesione ci pensa la scelta di iniziare il concerto con dei brani eseguiti solo dal cantante (Davide Genco) e dal suo ukulele in una sala semibuia. Si aggiunge poi il chitarrista (Marco Settanni) che, tra le varie canzoni, esegue la celebre “Society” e infine, il bassista (Marco Chiodi) e il batterista (Enrico Pirola) che danno alla serata una svolta più rock.
L’esecuzione integrale della colonna sonora è intervallata da una scelta filologica di brani aventi a che fare con Eddie Vedder e con i concetti capisaldi del film: la libertà e il viaggio. I brani selezionati spaziano tra cover dei Beatles, dei Pearl Jam, e “Follow The Sun” suonata con chitarra e armonica, sottolineando quell’immaginario cinematografico del viaggiatore solitario che si tiene compagnia con la musica. D’altra parte, il patto non scritto stipulato tra la band e il pubblico è quello di voler fuggire per una serata da «questo mondo così triste».
Esattamente come accade in un viaggio appena iniziato, in alcuni momenti si percepisce la necessità di un motore che deve carburare, complice il fatto che lo spettacolo sia alle prime esecuzioni e abbia bisogno di essere ben collaudato. Nonostante ciò, il prodotto confezionato è piacevole.
La serata si conclude in modo tranquillo e anche se le temperature sono tutt’altro che glaciali come in Alaska, per tutto il concerto sembra di essere nel vero Magic bus, con Alexander Supertamp a ripetersi che «La felicità è reale solo se condivisa».
Uno degli argomenti più discussi durante l’estate 2022 è stato indubbiamente il rapporto tra gli eventi musicali più importanti della stagione e l’impatto ambientale. La conversazione è stata incoraggiata soprattutto dalle polemiche nate intorno al Jova Beach Party, tour estivo di Jovanotti che aveva come location gli arenili di varie città balneari: è in questo contesto di maggiore coscienza sulla problematica che il _resetfestival ha organizzato l’incontro “La sostenibilità ambientale negli eventi” in collaborazione con il CdS EACT del Dipartimento di Economia e Statistica dell’Università di Torino, seguito da un laboratorio curato da Antonio Vita, funzionario della sezione Igiene Urbana e Ciclo dei Rifiuti per il comune di Torino.
Il talk, che ha avuto luogo al campus Luigi Einaudi, è stato brevemente introdotto da Daniele Citriniti, organizzatore e fondatore del festival, ed è proseguito con la presentazione della tesi del 2018 “Change The Music” – misure per la sostenibilità dei festival musicali realizzata da Antonio Vita, che si è chiesto come il settore creativo potesse contribuire positivamente allo sviluppo di città e comunità sostenibili. Sono stati mostrati alcuni casi studio che trattavano importanti festival europei come Glastonbury e diverse tipologie di festival italiani fra cui il TOdays; il focus principale della ricerca era la mobilità e la ricerca di alternative più sostenibili per raggiungere gli eventi come il car sharing, il bike sharing e le navette.
Successivamente è intervenuto Aldo Blandino, uno dei responsabili dell’area ambiente del comune di Torino, che ha parlato dell’impegno della città soprattutto in termini di questione ambientale e transizione ecologica, portando come esempio l’organizzazione di MITO Settembre Musica 2020 e gli accorgimenti presi per ridurre l’impatto ambientale del festival. Hanno poi preso la parola i professori Enrico Bertacchini e Vito Frontuto, che hanno sottolineato la necessità di trovare soluzioni che possano funzionare oltre il medio periodo e l’importanza di elaborare politiche culturali che educhino la popolazione sul cambiamento climatico.
Il talk si è concluso con l’intervento di Dino Lupelli, general director di Music Innovation Hub, che ha raccontato la sua esperienza nella progettazione del Back to the Future Live Tour di Elisa e delle decisioni prese per realizzare una serie di concerti che avesse il minor impatto ambientale possibile: tra queste la scelta di svolgere una delle tappe di giorno, la valorizzazione di spazi già esistenti e la realizzazione di attività di sensibilizzazione sul tema per il pubblico.
Una volta terminata la conferenza è stato organizzato una sorta di laboratorio, coinvolgendo i presenti in una sessione di brainstorming al fine di trovare soluzioni integrabili all’organizzazione di un evento musicale per renderlo più sostenibile ed idee per incoraggiare chi frequenta i concerti ad assumere comportamenti più rispettosi dell’ambiente: tra gli espedienti pensati quello di realizzare stand con tutoriali per realizzare prodotti fai da te attraverso il riciclo, l’idea di donare una parte dei soldi del biglietto ad un’associazione per la tutela dell’ambiente e l’inserimento di maggiori accorgimenti per la raccolta differenziata nella venue. Decisamente, quello del _reset, un festival costruito e popolato da persone coscienti del mondo in cui vivono.
Lo scorso giugno il trio scozzese dei Biffy Clyro aveva chiuso l’ultima giornata del Download Festival, uno dei festival di maggior rilevanza nel panorama della musica live britannica. La band, capitanata da Simon Neil alla chitarra e alla voce, assieme ai gemelli Ben e James Johnston batteria e basso – riscuote da anni di un successo clamoroso in madrepatria; al pari di gruppi come Foo Fighterso Muse, i Biffy Clyro hanno ampiamente dimostrato di saper riempire gli stadi. Lo stesso non si può dire dei loro concerti all’estero, dove la production è molto più modesta.
É questo il tipo di spettacolo che il gruppo sta portando in giro per l’Europa da qualche settimana, a sostegno dei due album “fratelli” A Celebration of Endings e The Myth of the Happily Ever After. Mercoledì 14 settembre tocca all’Italia: siamo vicino a Milano, al Carroponte di Sesto San Giovanni. I fan si sono radunati, nonostante il tempo molto incerto, fin dalla notte prima, creando un’atmosfera più simile ad un campeggio (complice anche l’area adibita) che alla fila di un concerto. Alle 20:15 si spengono le luci: gli olandesi De Staat irrompono sul palco, scatenandosi all’insegna di un dance-rock eccentrico, con riferimenti all’immaginario dei Talking Heads nella loro presenza scenica.
Esattamente un’ora dopo, i Biffy Clyro accompagnano dolcemente il pubblico verso il loro show con “Dum Dum”, per poi strattonarlo con prepotenza con “A Hunger in Your Haunt”, grazie alla sua energia prorompente. La scaletta è satura di stili diversi: dal punk rock al cardiopalma (“That Golden Rule”), all’AOR da cori da stadio (“Biblical”), esperimenti progressive (“Slurpy Slurpy Sleep Sleep”), fino al pop puramente commerciale (“Re-arrange”). Il concerto culmina con, in qualche modo, la crasi di tutti questi elementi: oltre al classico “Many of Horror”, nel bis c’è “Cop Syrup”, un brano caratterizzato dalle sue impennate, discese, crescendo orchestrali, parti confinanti con lo shoegaze, urla punk e arpeggi di chitarra non troppo lontani dai Genesis. Il pubblico è estasiato: in sole due ore i Biffy Clyro hanno dimostrato di saper coinvolgere con qualsiasi genere proposto, suonando un greatest hits (con l’adeguato spazio agli ultimi lavori) con un’energia spiazzante.
Di poche parole, la band lascia piuttosto parlare il repertorio, limitandosi a ringraziamenti sparsi in un italiano molto improvvisato (colpisce il “grazie mille Milano tutti” di Neil). Il light show particolarmente ispirato riesce a massimizzare la resa del modesto impianto. Niente effetti pirotecnici, mega schermi, coriandoli o scenografie: tre ragazzi (sette contando i turnisti), la loro musica, e un pubblico di appassionati. Quello dei Biffy Clyro è uno spettacolo intimo, vivace, creativo, imprevedibile, e non c’è schermo LED di ultima generazione che regga il confronto.
Decine di persone che si muovono in strada a ritmo di musica psichedelica, alcune mezze nude, altre travestite da frati, stregoni e altre creature fatate – no, non è un flash mob, né un rave party: è la fila per il concerto di Aurora. É questo il pubblico che attrae la cantante norvegese: appena ventiseienne, Aurora è autrice di svariati brani di grande successo tra i giovani, nel segno di un art pop sospeso tra Björk e Florence + The Machine. Mercoledì 7 settembre, il tour in supporto dell’ultima fatica The Gods We Can Touch (2022) approda all’Alcatraz di Milano.
Il locale è gremito, l’attesa per lo spettacolo viene smorzata dalle artiste di supporto Thea Wang e Sei Selina. Wang, alla vigilia dell’uscita del suo album di debutto, presenta un breve set acustico e intimo, illuminato dai flash dei telefoni. Selina porta l’opposto: un pop moderno di matrice elettronica e latin, intervallato da ballad al pianoforte che spezzano il ritmo del suo set generando notevole attrito.
A questo punto il palco – allestito con onde, conchiglie e una gigantesca luna di tessuto bianco al centro – si fa scarlatto: dalle quinte emergono i musicisti fasciati da una tunica bianca: un evidente omaggio all’antica Grecia, tematica centrale in The Gods We Can Touch. Allo stesso modo appare Aurora che, tra le urla dei fan, attacca con la suggestiva “Heathens”. La figura della cantante si staglia in controluce davanti alla luna rossa: un effetto che lancia da subito la serata in un’atmosfera mistica. Alternandosi tra momenti ad alto tasso di energia con “Cure for Me” e “Daydreamer”, e brani più intensi come la famosa “Runaway”, Aurora parla al pubblico con il suo candore grazioso e caotico. «Il mondo sarebbe un posto migliore se solo ci concedessimo di essere tristi e di guarire con il giusto tempo» esclama la cantante, prologo per una versione di “The River” che inonda la sala di lacrime, regalandoci uno dei momenti più alti dello show.
Non manca il sostegno LGBTQIA+: durante “Queendom”, Aurora raccoglie una bandiera pride e scorrazza tra colori arcobaleno: ormai il pubblico è completamente suo. Sorprende, infatti, che il concerto finisca con una certa rapidità: a chiudere il set è “Giving Into the Love”, seguita da un bis acustico con “Exist for Love” e la struggente “Murder Song”, che lascia i fan in sospeso. Ciononostante, l’amore dei suoi warriors (così denominati dalla cantante stessa) ha riempito l’Alcatraz per ottanta calorosi minuti.
Aurora ha dimostrato che il suo immaginario è luogo di completa accoglienza, amicizia e positività. Lo spazio all’intero spettro di emozioni rende la cantante autentica e per niente pacchiana nel suo essere irrimediabilmente sé stessa, anzi, è proprio questo il suo punto di forza.
Torino, domenica 28 agosto: la terza e ultima giornata del TOdays Festival si accende tra il fermento generale, per una serata che si preannuncia densa di musica interessante. La line-up accosta sapientemente le diverse sfumature di un indie rock tutto diviso tra il Regno Unito e gli USA: esordio e chiusura arrivano dalla Scozia, con gli Arab Strap ad aprire e il gran finale con i Primal Scream; i newyorkesi DIIV e gli inglesi Yard Act, nell’ordine, si spartiscono il ripieno dello show.
La golden hour è alle porte: quello che era un piccolo capannello in transenna, nel giro di poco si è trasformato in una folla nutrita ed effervescente. Che l’evento abbia inizio.
La band di Aidan Moffat si presenta sui colpi serrati di un ritmo elettronico: è “The Turning of Our Bones”, che prende forma dal suo minimale riff di chitarra. Il frontman, look a dir poco coraggioso – camicia nera e jeans bermuda – attacca con un testo dalla metrica concitata, perfetto per una voce a tinte fosche come la sua. I suoni di chitarra, generalmente puliti, si mantengono su queste coordinate per tutto lo show, mentre il gruppo sfoggia una presenza poderosa nel suo stile caratteristico. I ritmi si infiammano con gli influssi dance in tempo dispari di “Compersion Pt. 1”, per poi distendersi drammaticamente con “New Birds” e riaccendere tutto nel finale, nell’elettronica forsennata di “TheFirst Big Weekend”. Moffat si destreggia anche su un sintetizzatore e su un pad elettronico. Grande performance, contrassegnata in larga misura da mood musicali e testuali vagamente – nettamente, in alcuni casi – sinistri.
È poi il turno dei DIIV, che si presentano ostentando un distacco solo di facciata. Zachary Cole Smith prende posto sul palco e presenta con poche parole la band: comincia così “Loose Ends”. La qualità live è ottima e incorpora le peculiarità della produzione musicale del gruppo: protagonisti assoluti gli intrecci melodici tra chitarre effettate, con echi onirici tra lo shoegaze e il dream pop. A prendersi la scena è il chitarrista Andrew Bailey, immerso con lo strumento in un mondo tutto suo, a partire dai capelli annodati in due trecce sulle spalle e dalle smorfie istrioniche che ne fanno un personaggio. Picchi di adrenalina durante “Under the Sun”, scandita a gran voce dai presenti, gli stessi che pogano sfrenati a partire dalla potentissima “Doused”, tratta dall’album d’esordio Oshin (di cui si festeggia il decennale), e fino alla fine della scaletta. Chiusura degna con “Blankenship”; merita una menzione anche la componente ritmica, con la devastante batteria di Ben Newman ed il basso di Colin Caulfield.
Gli Yard Act, band più giovane della serata (formatasi 3 anni fa, con album d’esordio lo scorso gennaio), salgono sul palco con personalità: il cantante James Smith si contraddistingue prontamente per il suo fare loquace, prima di immergersi a capofitto nel groove deciso e scanzonato di “Dark Days”. Il batterista Jay Russell e il bassista Ryan Needham compongono un duo tagliente, ed è proprio lungo le coordinate del ritmo che la band inglese si muove, ritmo cui i pungenti riff chitarristici di Sam Shjipstone – apprezzabili e apprezzati – cedono in generale il passo. Molto orecchiabile “Land of the blind”, molto incisiva la title track “The Overload”, molto accattivante “Rich”: il complesso mostra grande grinta, unita ad un atteggiamento spregiudicato di ispirazione quasi punk (o meglio, post-punk). Smith ama raccontarsi e raccontare le storie dietro ai brani, e la folla gli dà tutta la soddisfazione che merita la sua presenza scenica.
Dulcis in fundo, i Primal Scream: le premesse sono ottime, specie se aggiungiamo l’hype generato intorno all’annunciata esecuzione di Screamadelica. La partenza sicuramente ha molta elettronica, con “Swastika Eyes”: Bobby Gillespie ha addosso i colori e il disegno del loro disco più famoso, suona le maracas, e naturalmente accentua il suo ruolo di leader. Anche con “Pills” e “Deep Hit of Morning Sun” – dedicata al compianto Mark Lanegan –la linea continua; a metà dell’esibizione, però, la rotta cambia improvvisamente, abbandonando le sonorità da rave per atmosfere più intime, come in “English Town”, oppure più classicamente rock, come nella celebre “Movin’ on Up” (primo pezzo tratto da Screamadelica) o in “Country Girl”. Morale della favola, i brani dello storico album sono soltanto due, tra cui “Loaded”, suonata in chiusura dopo aver fatto credere a tutti che il concerto fosse finito. Purtroppo, per quanto riguarda i Primal Scream sembra mancare qualcosa: lo si è percepito anche da una certa stanchezza (forse mista a delusione) aleggiante tra il pubblico. Evidente il gap tra le aspettative e l’offerta della band, che ha comunque regalato momenti divertenti e altri di vigore ed esaltazione.
Una timida pioggia ha iniziato a scendere proprio verso il termine dell’evento; nel complesso, una grande serata e una conclusione in bello stile per questa edizione del TOdays, che ha regalato spunti di rara bellezza dall’immenso patrimonio della musica indipendente. I quali, si spera, saranno fonte di ispirazione per migliaia di musicisti, e non solo a Torino.
Continua il racconto del TOdays Festival, con la seconda giornata che si è svolta sabato 27 agosto. Il pubblico accorso a sPAZIO211 è piuttosto internazionale ed è pronto a godersi una line-up di generi diversi, ma all’insegna della musica suonata. Gli spettatori si godono l’aria da festival che si respira nella periferia torinese, bevendo una birra in compagnia e discutendo di musica.
L’atmosfera si scalda quando a salire sul palco è la band inglese Squid, che con il suono distorto e sporco è in grado di catturare il pubblico dal primo istante. Il revival post-punk sta attualmente vivendo la sua golden age, grazie a band che si fanno portavoce di un sound anni Settanta e Ottanta, come – tra le tante – i Fontaines D.C., gli Idles e gli Shame. Gli Squid, originari di Brighton, non sono da meno: l’album d’esordio Bright Green Field, uscito dopo una serie di ep validi, ha convinto gli spettatori del festival, che hanno accolto il quintetto a colpi di headbanging e pogo sfrenato.
Ollie Judge, batterista e al tempo stesso tempo vocalist della band, è l’anima punk del gruppo, che a furia di colpi su piatti e rullante dà il groove per la schizofrenia mostrata sul palco. Il loro set è un susseguirsi frenetico di brani feroci, che si alternano a jam strumentali, beat elettronici, momenti ambient per soli fiati e cenni jazz. Tra i brani proposti c’è “Narrator”, otto minuti in pieno stile Talking Heads e Wire che sfocia in una frenesia di voci sconnesse, e le immancabili “Houseplants” e “G.S.K”. Lo sperimentalismo degli Squid è la ricetta giusta per scaldare i motori per il resto della serata.
Congedati gli Squid è tempo di cambiare decisamente atmosfera. Sul palco salgono le Los Bitchos, quartetto tutto al femminile proveniente da Londra. La band propone un vero e proprio party strumentale, fatto di rimandi caraibici e di ritmi della cumbia colombiana. L’assenza dei testi nei loro brani non si fa sentire: la loro performance convince gli spettatori, che improvvisano anche qualche passo di danza in maniera spensierata. La fine dell’estate alle porte non intacca lo spirito del pubblico, che si gode l’atmosfera gioiosa a mo’ di festa sulla spiaggia.
La loro musica dance rock dall’energia contagiosa ha attirato l’attenzione di molti, tra i quali Alex Kapranos dei Franz Ferdinand. Il loro album d’esordio Let the Festivities Begin! – eseguito per intero sul palco di Torino – è stato infatti prodotto dal frontman della band inglese.
La serata prende una svolta quando sul palco salgono i Molchat Doma. “Il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco” cantavano i Subsonica ed è proprio così che è andata durante l’esibizione della band bielorussa. I fulmini hanno contribuito alla scenografia, fino a quando la minaccia non si è trasformata in un temporale torrenziale. Paradossalmente lo scenario perfetto per la musica dei Molchat, che con il loro sound dark hanno trasportato il pubblico in una dimensione crepuscolare.
Una miscela vincente di post-punk, new-wave e synth-pop, con influenze dei Joy Division e dei Cure (da segnalare a proposito l’apertura di un brano con il riff iniziale di “A Forest”). La voce cupa di Egor Shkutko e l’uso massivo del synth da parte di Roman Komogortsev convincono gli spettatori, che cercano un riparo dalla pioggia senza perdere di vista ciò che accade sul palco.
La pioggia cessa e uno scosso pubblico torna in un parterre ormai inondato dal fango. Ma per FKJ aka French Kiwi Juice – il producer e polistrumentista francese nu jazz di musica elettronica – si può sopportare il disagio provocato dal maltempo. L’eleganza della sua musica è testimoniata dall’allestimento del palco: un salotto con tanto di divani e lampade dalla luce calda, che rendono il clima familiare. FKJ ringrazia il pubblico per essere rimasto nonostante la pioggia, dopodiché attacca a suonare, destreggiandosi con talento tra tastiere, chitarre, loop station e strumenti a fiato. Il temporale, però, torna in maniera ancora più intensa e i fan si dividono tra chi torna a casa in anticipo e chi balla sotto il diluvio. “The show must go on”, dunque il polistrumentista e i musicisti proseguono proponendo un’esibizione sensoriale, ricca di melodie jazz. “Tadow”, il suo brano più famoso, chiude il concerto ed è il premio finale per i più temerari.
Sul cammino di casa c’è la sensazione di aver vissuto due realtà opposte: da una parte l’energia dei Squid e il party delle Los Bitchos, dall’altra la cupaggine dei Molchat e le vibes ipnotiche di FKJ. Comunque sia, anche nel day two il pubblico esce soddisfatto dalle quattro ore di live.
Venerdì 26 agosto nel cortile di sPAZIO211 si è tenuta la prima giornata del TOdays, il festival torinese dedicato alla musica alternativa. Il pubblico è transgenerazionale, data la ricca proposta della rassegna, che vede esibirsi quattro artisti differenti per tre serate dal 26 al 28 agosto.
Il primo artista ad esibirsi è Eli Smart, cantautore delle Isole delle Hawaii trapiantato a Liverpool che ha preso il posto dei Geese nella line up del festival, dopo l’annullamento del tour europeo del gruppo. Il cantautore, accompagnato dalla sua band, stupisce parlando un italiano quasi perfetto e confessa di sentirsi a casa, rivelando le sue origini venete. Imbraccia la chitarra e presenta il suo ep Bonnie Town, ricco di melodie orecchiabili e dallo stile vintage, in pendant con la sua camicia a righe rosa e i Levis sbiaditi. Smart si diverte e fa passare una mezz’ora di leggerezza al pubblico, che lo accompagna tenendo il ritmo con le mani, in particolare duranti i brani “Come on, Come on, Come on” e “Hold on the Feeling”.
Successivamente è il turno dei Hurray For The Riff Raff, capitanati dalla frontwoman Alynda Lee Segarra, che sfoggia un’acconciatura mullet alla David Bowie. L’energia è evidente sia sul palco che tra il pubblico, che inizia ad assieparsi sempre di più sottopalco mentre il buio inizia a fare capolino su Torino. La band statunitense presenta l’ultimo album Life on Earth, uscito lo scorso febbraio. I testi dei brani trattano il rapporto dell’uomo con la natura, mentre il sound risulta elettronico e ritmico, con una presenza centrale affidata ai synth, che sprigionano un collage di suoni dissonanti.
Grande attesa per la terza band: i Black Country, New Road. I giovanissimi inglesi partono timidamente a suonare, mostrando un bagaglio tecnico interessante. Tuttavia, la loro performance non convince. Il motivo? Il frontman Isaac Wood ha abbandonato il gruppo dopo l’uscita del secondo album, sull’onda di un successo che etichettava la band come una delle più interessanti del panorama post-punk attuale. La mancanza del cantante non è stata tempestivamente colmata, ma al contrario il gruppo risulta ancora privo di una voce leader. Sul palco i membri della band si alternano infatti tra di loro, cantando varie parti di ogni brano, inedito o proposto in una versione del tutto rivisitata. Chi si aspettava di ascoltare i successi di For the first timee Ants From Up There è rimasto deluso dall’ora scarsa di live.
Un live che è stato teatrale, con suoni a tratti avanguardistici, come quello del basso suonato con l’archetto del violoncello. Nonostante il loro evidente talento i BCNR non sono però animali da palcoscenico e la loro staticità non coinvolge il pubblico. Non si può, però, non provare empatia e comprensione per un giovane gruppo che sta cercando una nuova dimensione per ripartire.
Il nome più atteso è quello di Tash Sultana, che sale sul palco alle 23:00. L’artista australiana si presenta inizialmente in solitaria, accompagnata dalla miriade di strumenti che affollano il palco: una Stratocaster, una Telecaster, una chitarra acustica, un basso, un synth, un sassofono, una tromba, un flauto traverso e un ricco strato di pedaliere ai suoi piedi. Ciò che più sorprende è che ogni strumento viene suonato dall’artista con una tecnica impeccabile, che lascia a bocca aperta i presenti. Il suo talento è evidente come polistrumentista, vocalmente ma anche come intrattenitrice: Tash Sultana ha personalità e sa coinvolgere, correndo instancabilmente da una zona all’altra del palco. In scaletta si susseguono principalmente i brani del suo ultimo lavoro Terra Firma – proposti in una versione strumentale arricchita e piena di loop -, ma anche alcuni del suo repertorio precedente, tra i quali “Notion” e “Jungle”.
Il groove elettrizzante e i riff ipnotici di Tash Sultana chiudono la prima giornata del TOdays, che nella prima serata si conferma all’altezza delle aspettative, soprattutto grazie alla sua memorabile performance.
A cura di Martina Caratozzolo
La webzine musicale del DAMS di Torino
We use cookies to ensure that we give you the best experience on our website. If you continue to use this site we will assume that you are happy with it.Ok