“I Dream Theater sono artisticamente morti dopo l’uscita di Kevin Moore”
“Sono noiosi, didiscalici e freddi.”
“Esagerano con la componente tecnica. Sembra di sentire una serie di esercizi per i rispettivi strumenti”
“James LaBrie è bollito. Un cantante così dovrebbe ritirarsi.”
“Mike Mangini è una drum machine. Quanto ci manca Mike Portnoy.”
Ecco, questi sono i commenti ricorrenti che puntualmente affollano le sezioni commenti dei principali social network e nelle discussioni inerenti i Dream Theater. Ed è giunto il momento di scrollarsi di dosso tali giudizi preconfezionati e frutto di una generazione ingrata di pseudo intenditori musicofili da cameretta, che dopo aver abbondantemente mangiato dal succulento piatto offerto dal quintetto statunitense nel corso degli anni, ha evidentemente deciso di tornare sui propri passi risputandolo, per bollarlo come per spacciato. Pura ipocrisia da leoni da tastiera sempre più diffusa nel mondo metal, e specialmente in Italia, dove si fa a gara a chi denigra i nomi storici che hanno contribuito a delineare i connotati di questa musica, sparando giudizi lapidari e spregiativi a raffica, spesso senza aver ascoltato a dovere il disco in questione. In un clima odierno in cui la vita media di un album nuovo al momento dell’uscita è piuttosto breve oltre che affollata ed oscurata da centinaia di uscite analoghe, sembra sempre più evidente la tendenza ad un ascolto superficiale, distratto e di contorno rispetto alla vera cosa importante: dare il proprio giudizio prima di qualunque altro, ponendosi in modo quanto più assolutistico possibile, badando bene a non ascoltare una singola parola detta da chi la pensa diversamente.
In questo contesto, i Dream Theater pubblicano il sostanzioso A View From the Top of the World, quindicesimo lavoro in studio in oltre trent’anni di onorata carriera. Le sette lunghe tracce in esame testimoniano la volontà da parte della band di scrollarsi di dosso questi giudizi grossolani andando a costituire una prova di forza inaspettata, ponendosi come una netta inversione di tendenza rispetto al ben più lineare e di facile presa Distance Over Time (2019). Non dovendo più dimostrare niente e forti di uno stile consolidato nel tempo e sempre coerente in termini di tecnica, melodia, pomposità epica ed emotività, i Dream Theater costruiscono nota su nota della musica che esplora abbondantemente le sfumature più heavy metal della loro gamma sonora, intessendoci sopra elaborate divagazioni e variazioni sul tema che dal progressive traggono il gusto per il virtuosismo estremamente melodico unito ad una disinibita sperimentazione sui tempi dispari, le poliritmie e controtempi senza soluzione di continuità. Ci troviamo idealmente in un crocevia che fa eco al repertorio più oscuro e pesante della band, prendendo a riferimento le atmosfere algide di Awake, lo shredding tamarro di Train of Thought ed il gusto per repentini ammiccamenti orecchiabili presi da Dream Theater. Ed è così che si viene travolti dall’isterico vortice sonoro di “The Alien”, che per quanto canonica e vicina alle ultime cose fatte dai Dream Theater negli ultimi anni vanta un’ottima coda strumentale in levare sul finale, mentre “Answering the Call” e “Invisible Monster” sono gradevoli numeri a tratti vicini a certo power-progressive moderno.
Il meglio però arriva con la bislacca “The Sleeping Giant” dal riff portante tanto heavy quanto trascinante, alla quale segue il tributo ai Rush di “Trascending Time”. Le due suite finali, ovvero “Awaken the Master” e la title track, che coprono la mezzora finale del disco, alzano ulteriormente l’asticella introducendo alcune novità che fanno ben sperare per il futuro e lasciano intravedere interessanti sviluppi in territori djent. “Awaken the Master” è infatti il brano più aggressivo dell’intero lavoro e vede John Petrucci sfoderare per la prima volta la sua nuova Music Man a otto corde. Nel complesso, si tratta di un bel pezzo dinamico dall’andamento tempestoso che riesce ad essere coerente con il consolidato stile dei Dream Theater pur non rinunciando all’influenze derivate dalle frange più moderne del metal attuale. “A View From the Top of the World” merita un discorso a sé. Se infatti “Octavarium” era una lucida dichiarazione d’amore verso il progressive rock ispiratore della band che però precisava anche la volontà di distaccarsi dagli stilemi dei padri fondatori del genere ricercando uno stile personale, così questa suite è una dichiarazione d’intenti di un gruppo mai domo che, nonostante non debba per forza dimostrare il proprio valore, mira a raggiungere nuovi ed ambiziosi risultati.
Nel complesso dunque, il songwriting dell’album risulta più curato ed ispirato che in passato, complice anche la lunga pausa forzata dovuta alla pandemia che ha permesso forse più tempo per riflettere ed elaborare le numerose idee messe in campo. Soprattutto James LaBrie, che negli ultimi anni è stato oggetto di pesanti critiche sul rendimento altalenante dal vivo e per le performance sempre più arrancanti in studio rispetto ai colleghi sembra, pur avendo fisiologicamente perso lo smalto di una volta, aver ritrovato parte di quell’espressività che a detta di molti è svanita. Certamente non può più far leva sull’estensione vocale per cui è noto, ma a conti fatti è ancora l’unico cantante adatto per i Dream Theater. Ha ancora senso ascoltare materiale inedito dei Dream Theater nel 2021? Sì perché A View From the Top of the World rielabora con opportuni ammodernamenti una visione, un’idea, un approccio personale e ormai ben delineato e coerente d’intendere la musica nel corso del tempo.