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RockIsh Festival: allo sPAZIO211 il rock alternativo italiano

Sono ben sette le band della seconda edizione del RockIsh Festival 2023, tutte in una sola e scoppiettante serata: è il 9 luglio e allo sPAZIO211 l’appuntamento, realizzato in collaborazione con la casa di produzione discografica Pan Music, è finalmente alle porte. Tra il main stage affacciato sul prato – futuro teatro del TOdays a fine agosto – e il side stage collocato sulla sinistra, i presenti fanno la spola in fibrillazione, gasati a buon diritto da una line-up che abbraccia la musica alternativa con un rock, un punk e un metal tutti italiani (soprattutto torinesi, ma non solo). Troviamo in maggioranza un pubblico di giovani e giovanissimi; a disposizione delle band – almeno, delle prime sei – c’è una mezz’ora ciascuno. Si parte alle 20.

Domani Martina. Credits: Lunasoft Video

I Domani Martina aprono le danze sul main stage. Il quintetto si contraddistingue da subito per un suono rock deciso, in cui risaltano i riff di chitarra, protagonisti insieme a un cantautorato degno di merito; i ritmi cadenzati – spesso e volentieri si tratta di groove danzabili in levare – fanno il resto, e lo fanno bene. “Uno come me” racchiude tutte queste caratteristiche, accendendo una platea ancora sparuta ma in vena di saltare a tempo e cantare sotto il palco, stuzzicata inoltre dalla cover di “Charlie fa surf” dei Baustelle: il primo round si conclude spaccando il secondo, con premesse eccellenti per il prosieguo.

Breathe Me In. Credits: Lunasoft Video

Pochi secondi e ci si fionda tutti sotto il gazebo del side stage, dal quale i Breathe Me In chiamano a raccolta i presenti. La band, attiva da 15 anni, propone brani dai tratti aggressivi, nei quali hardcore, metal ed elettronica non scendono a mezzi termini in una commistione vincente (vedasi l’esordio con “Animali Feriti”); la voce è intensa, nel registro acuto, e lo scream ci sta come il cacio sui maccheroni. Quel flirt con il pogo, solo vagheggiato in precedenza, ora diventa un matrimonio che s’ha da fare: complice lo spazio ristretto, il pubblico entra in contatto a più riprese, fomentato dallo stesso cantante. Una gran bella carica.

Tonno. Credits: Lunasoft Video

In uno schiocco di dita si fanno le 21; nel chiarore serale la folla torna sul prato, dove il gruppo toscano dei Tonno si è preso la scena. I riff sono semplici ma mai banali, in un pop rock con manifeste influenze emo. La voce qui graffia, quasi dà forma ai testi; dietro un’apparenza scanzonata, questi suggeriscono un disagio, vago o profondo, che sembra trovare radici nel quotidiano. Stasera, però, nulla ferma la voglia di ballare: “Fettine panate” è una hit indiscussa, perfetta per accompagnare il tramonto, e di certo rimarrà in testa a qualcuno nei giorni a venire («Ci sparavamo quei video / ci guardavamo quei video / delle fettine panate / dopo aver fatto l’amore»).

BRX!T. Credits: Lunasoft Video

Pronti, via, altro giro. Il quarto turno è dei BRX!T (pronunciato “Brexit”), quartetto che manda in estasi gli spettatori più energici. Il loro rock sa essere incisivo, pur lasciando sfogo ad aperture melodiche più pulite: un esempio di questo incrocio è dato da “Notti a caso”, brano lento ma grintoso che tanto si addice a questa serata in periferia, fatta di musica, incontri, afa e zanzare. Anche la sezione ritmica è da applausi, con un basso che sa decisamente il fatto suo e una batteria scatenata tra piatti forati e jam-block. Il pubblico si fa man mano più voluminoso: l’atmosfera è satura e gli spazi vuoti diminuiscono a vista d’occhio.

Madbeat. Credits: Lunasoft Video

Di nuovo il main stage, dove scalpitano i Madbeat, band di stanza tra Torino e Cuneo con dieci anni di attività alle spalle. La loro è un’impronta ben marcata: pop punk, senza se e senza ma. Attraverso strofe serrate e ritornelli esplosivi, il gruppo nei suoi versi racconta di un desiderio di rivalsa, delle fatiche e delle ansie di ogni giorno che costellano gli orizzonti urbani; un riscatto profuso nella freschezza giovanile di altre notti, stavolta proprio le “Notti Punk”, quelle che vengono prima dei giorni «con cui fare a botte». Altri due artisti si accompagnano al gruppo in due featuring: sono il rapper torinese Mauràs e il cantante Fabio Valente degli Arsenico. Si continua.

THE UNIKORNI. Credits: Lunasoft Video

Sesto round, un quarto d’ora dopo le 22. Nel side stage si presenta un duo, composto da una batterista e un cantante/chitarrista, se si esclude il peluche di un animale fantastico posizionato sulla cassa: THE UNIKORNI è il nome del progetto. La spinta è molto forte, con un grunge dai suoni ruvidi, dagli stacchi potenti e una vocalità spesso filtrata, che vola alta sulle ottave. Le tematiche sono più che attuali: la libertà di fare scelte sul proprio corpo, il successo degli influencer e le aspettative della società verso un individuo che non può permettersi di mostrarsi debole o avere paura. Di questo in particolare parla “CREPO/VIVO”, pezzo abrasivo e originale; lo sPAZIO è ora al completo.

Punkreas. Credits: Lunasoft Video

Gli headliner della serata sono i Punkreas, storica formazione proveniente dall’hinterland milanese e dal lontano – ormai lontanissimo – 1989. È soprattutto qui, com’era ovvio, che si palesano diversi fan di vecchia data, a variegare la composizione generazionale del pubblico. La musica della band (nomen omen), declinata in diverse fogge dall’hardcore allo ska punk, definisce uno stile mantenuto con coerenza in più di trent’anni; tanti i brani più iconici, tra cui “Il vicino”, “La canzone del bosco” e “Sotto esame”, mentre da Electric Déjà-Vu, ultimo album uscito lo scorso marzo, sono tratti pezzi come “Mani in alto” e “Tempi distorti”. Come prima e più di prima, si poga fortissimo, in un tripudio di polvere e corpi sudati sul prato, con qualcuno che fa addirittura crowd-surfing; tra ironie pungenti, stoccate al Dalai Lama e numerosi botta e risposta con la folla, un’ora abbondante passa veloce. Non prima di concludere con il selfie di rito post-concerto e una freddura dal sapore altopadano rivolta ai presenti: «Sembravate di Villarboit» (comune a nord di Vercelli da cui l’omonima area di servizio lungo l’A4, n.d.r.).

Il dj-set finale. Credits: Lunasoft Video

È quasi mezzanotte quando il RockIsh termina, lasciando spazio a un dj-set (ancora: pop punk) per chi non è stanco di muoversi, nemmeno in una torrida domenica sera di luglio; un evento divertente e ben organizzato, con ospiti di qualità e un’offerta eterogenea ma assortita nel migliore dei modi. Lo sPAZIO211 si conferma punto di riferimento assoluto per il panorama musicale, locale e non: una realtà che sa valorizzarsi e farsi apprezzare in ogni occasione.

A cura di Carlo Cerrato

I Simply Red a Stupinigi Sonic Park: ed è subito disco anni ‘80

Qualche nuvolone grigio che copre le ultime luci rossastre del tramonto e chi, dando le spalle al palco, scatta delle foto alla Palazzina illuminata nell’attesa dell’inizio dello spettacolo. È stato accolto così il concerto dei Simply Red che, il 4 luglio, ha inaugurato il cartellone di Stupinigi Sonic Park con un formidabile (e forse anche scontato) sold out.

Pochi i giovani: il pubblico per la maggior parte è della vecchia generazione e si appresta, tra una birra e un panino, a rivivere uno sprazzo di gioventù nel parco della palazzina. Tra un “fuori” urlato e qualche applauso di incitamento la band britannica sale sul palco e apre l’evento con “Better with you”, brano tratto dall’ultimo album, Time, uscito lo scorso maggio, che è anche quello a cui è dedicato questo tour. 

Foto di Alessia Sabetta

La serata procede in modo disteso e il parco risuona dei nuovi brani ma anche degli intramontabili classici della band, che hanno accompagnato l’adolescenza dei più. Non mancano gli assoli dei vari strumenti, tra cui anche sax e tromba, che sottolineano tutte le sfumature musicali della band, oltre che l’estrema bravura dei musicisti. Ma anche le dediche al cantautore Barry White e «That’s for you Tina, you’re a beautiful girl» dopo aver eseguito, durante il bis, la cover di “Nutbush City Limits”.Il frontman, Mick Hucknall, sfoggia per l’intera serata un italiano quasi perfetto a cui unisce del sano umorismo con cui intrattenere il pubblico.

Difficile, già da subito, rimanere fermi sulla sedia: chi ondeggia con il busto, chi muove freneticamente il piede e chi abbandona il proprio posto per rimanere in piedi in fondo o ai lati della platea per scatenarsi liberamente. Poi «let’s go back to 1985» – urla Hucknall − e all’improvviso, il prato di Stupinigi si trasforma in un enorme dancefloor, quasi tutti i presenti si ammassano sotto palco per ballare insieme e cantare prima che la band lasci il palco. 

Foto di Alessia Sabetta

In un attimo, dopo una “panoramica souvenir del pubblico” scattata dal cantante e i dovuti ringraziamenti, cala il silenzio e una fiumana di gente si riversa lungo l’enorme viale per uscire fuori. Tra i presenti c’è chi continua a canticchiare e chi, un po’ amareggiato, commenta la durata troppo corta del concerto, scherzando sulle movenze molto vintage del frontman.

Si conclude così una serata all’insegna delle pure vibes anni ’80, con le sonorità di una band i cui componenti sono da decenni considerati vere e proprie “Stars” in tutto il mondo.

a cura di Alessia Sabetta

Lo strano DNA dei Leprous: il concerto a Milano per l’Aphelion Tour

Rintracciare il DNA di un gruppo non è sempre un’impresa semplice. É il caso dei norvegesi Leprous, cui discografia, avviata nel 2009 con Tall Poppy Syndrome, è passata dal metal avanguardistico con influenze black (complice la vicinanza della band a Ihsahn, leader degli Emperor), al progressive metal di The Congregation, fino agli ultimi sforzi di stampo più pop e sinfonico, come Aphelion, oggetto dell’attuale tour che li vede protagonisti in ben 40 date consecutive. Per l’Italia c’è Milano: è il 27 febbraio, il Fabrique ospita 5000 fan che – come il gruppo – sono di vario genere: da metallari, a bimbi accompagnati dai genitori.

I Leprous durante l’energetico ritornello di “From the Flame” (foto di Mattia Caporrella)

L’apertura è riservata a due gruppi: primi i Kalandra, conterranei degli headliner, che immergono il club in atmosfere eteree e nordiche. Capitanati dalla vocalist Katrine Stenbekk, la band convince il pubblico con una sequenza di brani tratti dal loro debutto The Line, utilizzando strumenti poco convenzionali come archi per chitarra elettrica o corna animali. A seguire gli inglesi Monuments: il pubblico del Fabrique si scatena grazie al loro metalcore di livello, fra circle pit e pogo, incantato dalle abilità vocali di Andy Cizek, che passa dalle melodie agli scream con una facilità disarmante.

Il vocalist dei Monuments Andy Cizek si abbandona al pubblico durante il loro set (Foto di: Mattia Caporrella)

Una potente nota di basso sintetizzato emerge dalle casse: è l’inizio del set dei Leprous, che accolgono i fan con una doppietta terzinata: “Have You Ever” e “The Price”, accompagnate da cori a seguire i classici riff sincopati del gruppo. I Leprous si dimostrano fin da subito a loro agio, interagendo tra di loro e scambiandosi di ruolo continuamente fra tastiere, percussioni e voci.

I Leprous nei momenti finali del concerto (Foto di: Mattia Caporrella)

Continua lo showcase di vocalist fenomenali: Einar Solberg, compositore principale del gruppo, dimostra non solo un controllo vocale precisissimo (la sua ampia estensione vocale è da sempre protagonista dei brani dei Leprous), ma anche un’inedita scioltezza da showman: Solberg si rivolge al pubblico con fare sarcastico quando annuncia che il concerto sta per terminare: «Questa è un’informazione che non richiede reazioni, è un dato di fatto!» sottolinea il vocalist dopo le tipiche proteste. Dopo toccanti dediche all’Ucraina (“Castaway Angels”), tuffi nel passato del gruppo (“Slave” e la rara “Acquired Taste”, sorpresa della serata), e persino un brano eseguito dopo un sondaggio (“The Cloak”), i Leprous salutano il Fabrique bagnandolo di rosso: “The Sky Is Red” surriscalda la folla con la frenetica prima metà, per poi salutarlo con un crescendo finale dalle atmosfere apocalittiche: 11 minuti di intensità, sottolineate da un light-show stroboscopico. Dopo questa serata, resta difficile rintracciare il DNA artistico di gruppi così eclettici, eppure nel tris di gruppi c’è un fil rouge, che parte dalle terre scandinave dei Kalandra, passa per il metal tecnico dei Monuments, e arriva ai Leprous, che in qualche modo, brillano in ogni loro forma. 

A cura di Mattia Caporrella (Foto in evidenza: Mattia Caporrella)

Nella nicchia: VOLA live a Milano

Ogni fanbase ha dei gusti in comune. Nulla di più vero per i patiti del progressive metal: una nicchia – sì – ma che si presenta puntuale per i propri beniamini, trasformando i concerti in raduni, dove le facce sono ricorrenti. Non stupisce, infatti, che il pubblico approdato sabato 17 settembre al Legend Club di Milano per i VOLA sia lo stesso degli ultimi live dei Leprous, Haken (dove la band faceva da supporto) o dei TesseracT.  Quartetto danese, i VOLA si sono ritagliati in poco tempo un posto d’onore della comunità prog, forti di passaggi radiofonici anche in Italia (alcuni brani sono in rotazione su Radiofreccia e affini). Il tour attuale è incentrato su Witness, disco uscito lo scorso anno, per molti il loro lavoro migliore.

I VOLA si esibiscono sul palco del Legend Club di Milano (foto: Mattia Caporrella)

Oltre ai VOLA è prevista l’esibizione di altri due gruppi: primi in scaletta i Four Stroke Baron, band americana a cavallo tra Devin Townsend e Tears for Fears. Nonostante le canzoni ripetitive, il gruppo riesce a intrattenere grazie al bassista, che tra piroette e headbanging cattura l’attenzione del pubblico. Seguono gli australiani Voyager: il loro progressive metal di matrice synth-pop fa scatenare il parterre del Legend. La band racconta della loro mancata partecipazione all’Eurovision Song Contest di quest’anno con “Dreamer”, un brano dance pop, ma con chitarre distorte a sette corde. Sono loro la sorpresa della serata: il set è festaiolo e spiritoso, fra cori dedicati a Piero Pelù (data la somiglianza del vocalist Daniel Estrin al cantante toscano) e a Roberto Giacobbo, presentatore, appunto, di Voyager su Rai 2.

I Voyager all’opera. No, non è Piero Pelù. (foto: Dario Vignudini)

Il palco si fa blu: i VOLA entrano sulle note di “24 Light Years”. Si nota subito il batterista Adam Janzi, che si esibisce con grande intensità. La scaletta è una montagna russa: la partenza in crescendo culmina con “Stray The Skies”, un brano piuttosto aggressivo, dove il pubblico, fra moshpit e pogo, si fa sentire. Tuttavia questi durano poco, forse per la stessa natura della band: i VOLA sono specializzati nell’alternare riff di chitarra baritona sincopati che ricordano i Meshuggah, a ritornelli in pieno stile new-wave: Asger Mygind, come vocalist, viene spesso paragonato a Dave Gahan dei Depeche Mode. La band prosegue nel segno di questa dialettica, riuscendo a trasporre dal vivo il proprio sound in maniera ineccepibile. Particolare anche il light show, caratterizzato da neon e LED sincronizzati con la ritmica dei riff.

Il batterista Adam Janzi e il particolare light show al neon dei VOLA. (foto: Dennis Radaelli)

Si chiude con “Inside Your Fur”: ormai il Legend sta esplodendo di calore. Poco dopo si creano code per il merch, dove le band accolgono i fan tra saluti e foto. La serata finisce così: tanta stanchezza per lo show intenso, ma tanta ammirazione per i musicisti. I fan escono dal locale consci di poter ritrovare lo stesso ambiente al prossimo concerto “di nicchia”, sempre contenti di essere pochi, ma buoni.

Immagine in evidenza: Mattia Caporrella

A cura di Mattia Caporrella


Luppolo in rock: le nostre impressioni

L’ultima giornata del festival Luppolo in Rock, domenica 17 luglio, è stata una full immersion nelle sonorità metal più classiche e ortodosse. Direttamente dalla Bay Area di San Francisco, si sono esibiti infatti sul palco Cremonese TestamentExodus e Heathen, ovvero tre dei nomi più rappresentativi della scena thrash metal californiana per anzianità di carriera e repertorio. Purtroppo, a causa di ritardi accumulati alla partenza perdiamo l’esibizione dei nostrani Skanners ed Extrema, giungendo al Parco delle Colonie Padane giusto in tempo per lo show degli Heathen.

Il concerto degli Heathen è un evento nell’evento. La band suona per la prima volta in Italia dopo più di un decennio, ma il tempo non sembra aver infiacchito i musicisti, protagonisti di uno show all’altezza delle aspettative. Gli Heathen non sono di certo una band prolifica in termini di repertorio (hanno all’attivo solo quattro dischi in più di trentacinque anni di carriera), tuttavia la qualità dei brani in scaletta, uniti ad una prova energica e chirurgica hanno portato alla giusta temperatura il pubblico. Come ci si poteva immaginare è stato dato ampio spazio alle canzoni di Empire of The Blind, ultimo lavoro in studio del gruppo uscito nel 2020 e che solo ora sta avendo modo di essere testato in sede live a causa della pandemia. Le canzoni tengono assolutamente testa ai classici più datati, come per esempio l’eccellente singolo incalzante e massiccio “Blood To Be let”. Ovviamente però sono i cavalli di battaglia “Goblin’s Blade”, “Death By Hanging” e “Hypnotized” a fare sfaceli tra il pubblico, che entusiasta innesca i primi poghi della giornata. L’affiatamento della band è evidente e a livello puramente tecnico e di esecuzione non ci sono sbavature di alcun tipo da segnalare. Al contrario, nonostante i volumi non ottimali per la resa delle chitarre -da sempre perno e valore aggiunto della proposta degli Heathen – bisogna dire che il gruppo ha saputo dare prova del proprio valore dimostrando di meritare lo status di cult band conquistato negli anni. Bravi!

 Quando gli Exodus salgono sul palco si scatena il finimondo. Il pubblico, già caldo dopo la prova degli Heathen e per la temperatura rovente, implode in un circle pit ininterrotto ed alimentato a birra e thrash metal. È l’atmosfera ideale per assistere al concerto del gruppo, noto sin dagli esordi per le esibizioni energiche e la capacità di coinvolgere la folla. C’è un vero e proprio scambio di energie tra l’audience e gli Exodus e tanto più il pogo diventa scalmanato, tanto più la band suona inferocita. E tutto questo è possibile per pochi, semplici motivi. In primo luogo la scaletta molto intensa e piena di classici come “Bonded By Blood”, “A Lesson In Violence”, “And Then There Were None”, “Strike of the Beast”, “Deathamphetamyne” e l’inno da moshpit per eccellenza The Toxic Waltz da un lato e gli affilatissimi brani estratti dagli ultimi lavori Bood In Blood Out (2014) e Persona Non Grata (2022) che altro non fanno che gettare ulteriore benzina sul fuoco. Oltre ai brani, la band può vantare nel suo organico membri carismatici: il frontman dalla voce alta e strozzata Steve “Zetro” Souza, vero animale da palco e capace di cantare testi chilometrici con un flow quasi rap. O il chitarrista Gary Holt dallo stile tagliente e precisissimo, era molto atteso dal pubblico sia perché le canzoni le ha scritte lui, sia perché era assente dal palco da troppi anni con gli Exodus poiché in prestito ai colleghi Slayer. O ancora il batterista Tom Hunting, autore di una prova maiuscola per cattiveria e precisione nonostante sia reduce da una serie di gravi problemi di salute. E infine perché gli Exodus incarnano l’idea platonica della violenza. Non una violenza gratuita e banale, bensì organizzata, ordinata e perfettamente oliata nella sua cinica efficienza. La loro è un’esibizione che mira alla pancia e all’istinto dell’ascoltatore invitandolo a sfogare catarticamente le sensazioni negative accumulate nel tempo pogando, facendo crowd surfing e l’immancabile wall of death. Al tempo stesso però gli Exodus sanno essere in qualche modo distaccati da tutto ciò sottolineando ironicamente quanto sia solo “a good friendly violent fun in store for all” (da “The Toxic Waltz”).

Il concerto dei Testament è certamente meno irruente rispetto a quello degli Exodus, ma ugualmente valido perché vede protagonista quella che è attualmente e probabilmente la migliore formazione thrash metal sulla piazza. Chuck Billy (voce), Alex Skolnick ed Eric Peterson (chitarre), Steve Di Giorgio (basso) e Dave Lombardo (batteria) dominano la scena potendo contare esclusivamente sull’altissima padronanza tecnica dei rispettivi strumenti, sull’estrema nonchalance con cui eseguono i brani impegnativi per chiunque e su un’intesa reciproca sul palco derivata da anni di tour. Personalmente avevo già avuto modo di vedere i Testament nel 2017 quando al posto di Dave Lombardo suonava Gene Hoglan e le impressioni sono grossomodo le stesse, con la differenza che con l’ex Slayer dietro le pelli i nostri hanno guadagnato in termini di groove e potenza. Le rullate e i fill di Lombardo sono sempre nervosi e venati da un approccio hardcore che rende le canzoni vibranti, energiche, vive. Per carità, Gene Hoglan gli è probabilmente superiore tecnicamente, ma nei Testament si è sempre limitato ad essere un turnista di lusso perfetto per macinare le ritmiche senza cedimento alcuno e nulla di più. Lombardo è il batterista metal per eccellenza ed è perfetto in questo contesto perché, oltre ad essere impeccabile, riesce in qualche modo a personalizzare ciò che suona col suo particolare stile esecutivo. E si sente. Soprattutto quando i Testament si lanciano a testa bassa sull’esecuzione dei loro classici da “The New Order” a D.N.R (Do Not Resuscitate), a “Souls of Black” fino alle acclamate e conclusive “Over the Wall” e “Alone in the Dark” riproposta in una versione allungata pensata appositamente per far cantare l’ultimo coro del festival al pubblico.

Nel complesso l’ultima giornata del Luppolo in Rock è trascorsa in modo molto piacevole e per una volta, ci è sembrato quasi di non essere ad un tipico festival musicale italiano. L’ottima selezione musicale unita all’offerta gastronomica e alle buone birre artigianali vendute a prezzi onesti ci hanno fanno intendere che eventi di questo tipo possono svolgersi anche nel Belpaese, dando ai metallari tricolori un modello di festival di cui andare finalmente orgogliosi. 

A cura di Stefano Paparesta

Rock ‘n’ roll will never die: i Guns N’ Roses a San Siro

I fan dei Guns N’ Roses hanno vissuto i giorni precedenti al concerto di San Siro con incertezza. I problemi alle corde vocali di Axl Rose avevano costretto la band californiana ad annullare il concerto di Glasgow dello scorso 5 luglio, minacciando la cancellazione anche del resto del tour. Si è trattato invece di un allarme rientrato: il 10 luglio la band californiana ha infatti regalato un mega-show al pubblico italiano, dopo l’ultima volta in Italia al Firenze Rocks nel 2018.

Sono le 20 spaccate e i 50.000 spettatori attendono con trepidazione l’inizio del live. «Inizieranno davvero puntuali?» ci si domanda tra i fan. Ebbene sì: i Guns (con un atteggiamento poco rock) si attengono alle regole e iniziano puntualissimi. Axl Rose, Slash, Duff McKagan e gli altri musicisti aprono le danze con l’energia di “It’s So Easy”, uno dei brani più movimentati di Appetite For Destruction, il primo album uscito nel 1987. Gli spettatori reagiscono in due modi: c’è chi si alza in piedi e canta a squarciagola e c’è chi resta impassibile, visibilmente ammaliato dal virtuosismo chitarristico di Slash o forse semplicemente in attesa dei singoli più famosi. Chissà. Il pubblico è eterogeneo: dall’adulto malinconico dell’epoca d’oro dell’hard rock al giovane che quando la band californiana cavalcava l’onda del successo non era neppure nato.

Axl Rose non è più il bad boy con la bandana e i capelli lunghi degli anni Novanta, ma dimostra di non aver perso lo smalto di un tempo. Nonostante i problemi degli ultimi giorni, il frontman sfodera la sua voce stridente e le sue movenze sfacciate, corre da una parte all’altra e solo in brevi istanti decide di prendersi una pausa per prendere fiato nel backstage e cambiare outfit.

I Guns propongono una scaletta in cui la maggior parte dei brani risalgono al quadriennio d’oro 1987-1991. “Mr Brownstone”, “Welcome to the Jungle”, “You Could Be Mine” sono solo alcuni dei pezzi in scaletta. Spazio anche per le cover: “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges, che viene intonata da McKagan, in una convincente versione che dimostra le influenze punk del bassista e “Knockin’ On Heaven’s Door” di Bob Dylan, nella versione elettrica diventata un marchio di fabbrica del gruppo.

Uno dei momenti cardine del concerto è il momento riservato ad un lungo assolo di Slash, che, una volta rimasto solo sul palco, dimostra come il tempo per lui sembri essersi congelato. Lo starter pack del chitarrista è quello di sempre: cappello a cilindro, occhiali da sole scuri e folta chioma riccia, con l’aggiunta – per questa volta – di una semplice t-shirt dei Ramones. La tecnica, l’espressività e la velocità si fondono mentre suona, facendo sembrare (apparentemente) semplice ogni singolo suono prodotto dalla sua Gibson Les Paul. Il chitarrista si prende la scena e gli applausi, ma, non pienamente soddisfatto di quanto mostrato, alza ulteriormente l’asticella delle emozioni attaccando con l’intro leggendaria di “Sweet Child O’ Mine”.

Nelle tre ore abbondanti di concerto non può inoltre mancare il momento delle ballate in acustico: si susseguono “Patience” – introdotta da una versione strumentale di “Blackbird” dei Beatles – e “Don’t Cry”. Le ultime energie vengono riservate per “Paradise City”, che chiude la serata facendo scatenare i fan a colpi di headbanging.

A concerto finito, sulla strada della normalità, gli spettatori abbandonano San Siro con il passo lento di chi ha goduto di un concerto atteso da tempo: da prima della pandemia e, forse, da tutta la vita.

A cura di Martina Caratozzolo

(credits immagine in evidenza: © Dan Peled)

John Frusciante is back: il live dei Red Hot Chili Peppers al Firenze Rocks

I biglietti per il live dei Red Hot Chili Peppers al Firenze Rocks erano stati messi in vendita a novembre 2019. All’epoca il chitarrista della band californiana era Josh Klinghoffer; tuttavia, un annuncio del 15 dicembre dello stesso anno ha rivoluzionato tutto: John Frusciante è tornato nel gruppo che aveva lasciato, per la seconda volta, nel 2009. È bastato questo per far breccia nel cuore dei fan e per rendere ancora più speciale l’attesa di un concerto sold out e più volte rimandato per via della pandemia.

Il 18 giugno è servito del coraggio ai fan per riversarsi nella rovente Visarno Arena fin dalle prime ore del pomeriggio. Il pubblico che affolla la venue è eterogeneo, dall’adulto che segue il gruppo dagli albori degli anni Ottanta al ragazzino che ha scoperto il loro funk rock tramite Spotify. Ciò che li accomuna, però, è la passione e l’emozione per il ritorno dal vivo della formazione classica, quella che è stata la mente di due pietre miliari del rock come Blood Sugar Sex Magic e Californication.

Nell’attesa del concerto, ad intrattenere il pubblico ci hanno pensato quattro artisti: su tutti NAS, la leggenda dell’hip hop mondiale. Prima di lui si sono esibiti anche il rapper italiano Tedua – che ha fatto storcere il naso ad un pubblico troppo rockettaro per il genere proposto dall’artista -, la popstar californiana Remi Wolf e la band bolognese Savana Funk, il cui chitarrista di stampo hendrixiano ha invece entusiasmato i presenti.

Alle 21:30 le luci si spengono: il momento tanto atteso è giunto. A dare il via c’è la jam strumentale di Frusciante e Flea, che dimostrano di non aver perso la complicità di un tempo. La loro improvvisazione dà inizio a “Can’t Stop”, che apre le danze facendo scatenare la folla. Il tuffo nel passato continua con “Dani California” e “Charlie” per poi passare ad alcuni brani di Unlimited Love, il nuovo album della band uscito lo scorso aprile. Tuttavia, la loro intenzione è chiara: celebrare il repertorio della loro carriera, più che promuovere il loro ultimo lavoro (in scaletta vi erano infatti solamente cinque brani tratti da esso).

I Red Hot sul palco del Firenze Rocks (credit foto: Gabriele Ferrara)

Il tempo scorre a ritmo di slapping, funk e jam session improvvisate. L’emozione del pubblico è palpabile: il coro dei 65mila presenti è così forte da sembrare una sola voce. I Red Hot sorprendono e si divertono sul palco: Flea appare instancabile correndo da una parte all’altra; Kiedis sembra rivitalizzato dalla presenza di Frusciante, il quale si lascia andare a riff ed assoli intramontabili e dulcis in fundo Chad Smith, che nonostante possa apparire nascosto tra la batteria e il gong, è un instancabile fonte di groove e ritmo.

Il caldo patito durante la giornata lascia spazio all’adrenalina e al pogo. I presenti si scatenano infatti durante “Nobody Weird Like Me” e “Give It Away”, perdendo ogni inibizione e lasciandosi totalmente sopraffare dalla musica. La Visarno Arena riprende fiato solamente durante l’intro-medley di “Californication”, un momento intimo tra chitarrista e bassista, che ricorda ai fan quello dello Slane Castle del 2003, che hanno visto e rivisto su Youtube.

L’encore è composto da “By the Way, il brano con cui si conclude il concerto. Flea torna sul palco camminando sulle mani in verticale e Frusciante appoggia la testa sulla spalla di Kiedis una volta suonata l’ultima nota. L’alchimia tra la band è tornata, così come l’entusiasmo del pubblico nel rivedere la band dopo anni di attesa.

Gli applausi del pubblico a fine concerto (credit foto: Martina Caratozzolo)

Uniche pecche: la scaletta decisamente corta (solamente 16 brani) e l’assenza del brano simbolo Under the Bridge“. Tuttavia, siamo sicuri che una volta sul cammino di casa i fan siano tornati sognanti dall’ora e mezza di live vissuta, perché questa volta John Frusciante è tornato davvero.

A cura di Martina Caratozzolo

(credit immagine in evidenza: © Andrea Ripamonti)

Torino esoterica: Messa + Ponte del Diavolo

Chi abita a Torino sa del suo particolare legame con la magia bianca e nera, essendo essa il punto condiviso tra i due triangoli formati rispettivamente con Praga e Lione per la prima, mentre per la seconda troviamo Londra e San Francisco. Questa manichea opposizione che idealmente divide bene e male troverebbe nella città una sorta di equilibrio in cui queste due forze coesistono pacificamente. Ora, volendo compiere un salto logico abbastanza articolato e astratto, persino forzato se vogliamo, ritroviamo questa contrapposizione anche in campo artistico: l’esempio recente più evidente della scorsa settimana. Infatti, mentre il capoluogo piemontese era sotto i riflettori internazionali dalle luci sgargianti, colorate e gaie dell’Eurovision, altrove – e nello specifico al Bunker – è andata in scena l’oscura e pagana esibizione dei veneti Messa e dei torinesi Ponte del Diavolo.

Il motivo per cui i Messa stanno ottenendo così tanti consensi da pubblico e critica nostrana ed estera è presto detto. Questi quattro ragazzi hanno tutto: atmosfera, potenza, carica emotiva, gusto nella composizione e soprattutto hanno le canzoni, elemento imprescindibile che però molto spesso viene messo in secondo piano per privilegiare – a torto – altri fattori secondari come l’immagine o il gossip. Ecco, con i Messa tutto ciò non avviene e anzi, la musica è davvero la protagonista di un flusso sia fisico che mentale capace di trasportare in luoghi remoti sia geografici che dell’anima. Il loro doom metal è infatti di difficile classificazione e si può ben dire che è solo una componente di uno stile ben più composito e ricercato che ingloba suggestioni dark jazz e lunghe divagazioni strumentali orientaleggianti. C’è un senso rituale, spirituale, trascendentale ed ipnotico nei momenti in cui la musica si fa esclusivamente strumentale, ma anche una componente estremamente d’impatto che fa capolino ogni qual volta la band spinge sulla distorsione e i riff pachidermici. L’atteggiamento sul palco dei musicisti è attitudinalmente vicino allo shoegaze, con i singoli membri concentrati sui rispettivi strumenti ed effetti, ma ciò non toglie che la performance complessiva sia tanto impeccabile tecnicamente quanto sudata e fisica.

Discorso a parte per Sara Bianchin, la cantante, autrice di una performance di altissimo livello pur rimanendo praticamente ferma innanzi al microfono a occhi chiusi, totalmente concentrata e assorta nell’interpretazione dei brani. Bianchin ha una grande potenza, tecnica e un timbro che a tratti ricorda le grandi interpreti femminili di certa black music, che immersa in questo contesto estremo impreziosisce i brani addolcendoli e dando loro un’ulteriore eleganza. Quando non canta, sa mettersi in disparte, accovacciandosi tra le due spie in mezzo al palco per bere e far riposare le corde vocali, lasciando lo spazio ai suoi sodali di portare avanti la liturgia doom. Il paradosso, nonché peculiarità diffusa tra molti metallari è che, se da un lato la cantante mostra un evidente talento, carisma da vendere e una voce notevole e penetrante, dall’altro sembra essere altrettanto timida, specialmente quando mormora i titoli dei brani al microfono. Eppure al pubblico questo sembra quasi non importare tanto è assorto dalla musica. Tolte le giuste ovazioni tributate tra una canzone l’altra, il Bunker cala in un silenzio innaturale, concentrandosi nell’ascolto dei Messa come se fosse in trance. Insomma, se non c’eravate, vi siete realmente persi qualcosa.

Una menzione d’onore va sicuramente ai Ponte del Diavolo, che avevano il difficile compito di scaldare la platea. Missione che può dirsi compiuta in virtù dell’interessante miscellanea metal derivata dall’improbabile, ma azzeccata, unione di doom e black metal, voci femminili e scorie grunge: in altre parole una vera e propria riscoperta degli anni novanta aggiornata in chiave moderna. L’aspetto più interessante del gruppo è senz’altro la presenza di ben due bassisti in formazione votati a sovvertire il più rassicurante dominio della doppia chitarra. Una scommessa vinta perché le frequenze dei due bassi non si sovrappongono e l’equalizzazione dei rispettivi strumenti, uniti all’unica chitarra ritmica presente nel quintetto, crea un muro sonoro di tutto rispetto dalla pasta densa, plumbea, asfittica. L’esecuzione dei brani – tutti estratti dei due EP Mystery of Mystery (2020) e Sancta Mentuis (2022) – ha il giusto tiro e trasporto e sopperisce una presenza scenica a tratti un po’ statica, ma che nel complesso ha intrattenuto a dovere il pubblico fungendo da ottimo antipasto prima della portata principale.

Immagine in evidenza: Sergio Bertani de Lama

A cura di Stefano Paparesta

Viaggi psichedelici al Bunker di Torino: Bongzilla + Tons

Nell’aprile del 2021 l’album Weedsconsin aveva puntato i riflettori sui Bongzilla, tornati sulle scene dopo una pausa di ben sedici anni dalla pubblicazione di Amerijuanican, ma le imposizioni legate alla pandemia hanno di fatto impedito la possibilità di festeggiare l’occasione adeguatamente con un tour celebrativo.

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Canadesi un po’ pazzerelli: Voivod – Synchro Anarchy

Accantonati finalmente le opinioni, più o meno deliranti a seconda dei casi, sul Festival di San Remo e passato il quarto d’ora mediatico conseguente alla kermesse musicale, giungiamo ora al primo, vero piatto forte di questo 2022.  Synchro Anarchy dà il titolo al quindicesimo album dei Voivod, una delle più uniche, imprevedibili, anticonformiste, innovative e assolutamente sottovalutate band della storia del metal tutto. Descriverli a chi non li conosce è alquanto difficile vista la camaleontica capacità del quartetto di mutare costantemente negli anni: si parte dal thrash grezzo e dalla forte vena punk di War and Pain (1984) al thrash tecnico e futuristico di Killing Technology (1987) e Dimension Hatross (1988), sino alle sonorità visionarie e di stampo progressive metal acidissimo e talvolta dissonante dei meravigliosi Nothingface, Angel Rat The Outer Limits usciti nei primi anni novanta. In molti ne hanno apprezzato la musica, pochissimi l’hanno capita e fatta propria a causa della sua natura sfuggente e di difficile interpretazione. La musica dei Voivod si è affinata perfezionandosi negli anni e rimanendo sempre fresca e immediata da una parte, quanto altrettanto ostica, surreale e stramba dall’altra.

Volendo semplificare di molto, potremmo dire che Synchro Anarchy prosegue sulle stesse coordinate creative del precedente The Wake (2018) in quanto scioltezza e urgenza espressiva, ma allo stesso tempo aggiorna al 2022 le scorribande psichedeliche e futuristiche – sia nelle sonorità che nelle tematiche fantascientifiche – di Nothingface. Una volta premuto il tasto play si viaggia nello spazio profondo perdendosi nelle labirintiche ritimiche imbastite da Away (batteria), Chewy (chitarra) e Rocky (basso), ora più punkeggianti e vicine ai primi The Killing Joke, ora caratterizzate da quel thrash metal pieno di cambi tempo, dissonante e bislacco che ha fortemente caratterizzato la cifra stilistica dei canadesi. E in tutto questo l’unico appiglio certo sono le linee vocali spiritate e dalle tematiche super nerd cantate da Snake, che potremmo definire come il Syd Barrett del thrash old school, con meno LSD in corpo ma altrettanto visionario. La grandezza dei Voivod sta nell’inserire sonorità e soluzioni nuove ed inaspettate all’interno di uno stile già di per sé unico, senza ribadire mai lo stesso concetto e senza essere dispersivi e logorroici. In termini pratici per farsi un’idea più precisa – anche perché quanto detto fino ad ora è un insieme di suggestioni più o meno accurate vista la proposta alquanto singolare – basterà ascoltare “Paranormalium”, la titletrack, “Planet Eaters” la delirante “Mind Clock” o i viaggi sonori “Quest For Nothing” e “Memory Failure”.

Nonostante siano passati più di trent’anni dal loro debutto, nonostante le quattordici uscite discografiche precedenti a Synchro Anarchy e nonostante siano orfani da, qualche anno a questa parte, del genio compositivo dell’ex chitarrista Piggy, i Voivod si riconfermano una solida realtà pubblicando un disco contenente semplicemente belle canzoni efficaci e immediate, ma anche opportunamente strutturate e piene di idee interessanti e fresche che si pongono in continuità col sound del quartetto canadese rivedendolo, riplasmandolo e  svecchiandolo. Da avere, senza se e senza ma.