Il festival musicale MiTo 2022 trova sede anche presso il Teatro Cardinal Massaia di Torino, dove, nella serata del 20 settembre, si è tenuto un concerto per pianoforte solo dedicato a Sergej Rachmaninov ed interpretato da Alessandro Taverna. Il programma era composto dai nove Ètudes tableaux op.39 e la Sonata n.2 in si bemolle minore op.36
Un breve discorso d’apertura del presentatore ha ricordato il valore unico dell’autore russo, anello di congiunzione tra una tradizione romantica in declino ed una moderna, d’avanguardia, che si faceva spazio nella musica, nelle arti e nelle menti del Novecento. Il passaggio di consegne è eclatante: Rachmaninov nasce nel 1873 quando Manzoni, uno dei padri della cultura ottocentesca, emette il suo ultimo respiro, e muore nel 1943, mentre il secondo conflitto mondiale macchia il XIX secolo
Tutto ciò trova conferma nella scelta del repertorio proposto in sala, a partire dall’Allegro agitato in do minore con cui si è aperta la serata . L’autore russo, meglio noto per Sonate, Sinfonie e Concerti, era poco votato alle forme brevi come gli Studi. Questi dell’op. 39, scritti negli ultimi anni di permanenza in patria, portano con sé evidenti strascichi romantici (si pensi a Chopin e Čajkovskij, di cui Rachmaninov era fervido seguace) pur affacciandosi già alle sonorità della stagione novecentesca.
La Sonata, proposta nella seconda parte dello spettacolo, infatti esprime chiaramente questa nuova direzione avanguardista. Il brano, eseguito nella versione del 1931 (rimaneggiata dallo stesso autore rispetto all’originale del 1913), si sviluppa su armonie complesse, ritmi altalenanti, suoni prolungati che vibrano nelle orecchie e nell’anima di chi ascolta.
L’esecuzione di Alessandro Taverna rende giustizia alle note del compositore russo, grazie ad una sensibilità ben calibrata che segue il flusso sonoro, ora dirompente e deciso, ora delicato e maestoso. Incitato dagli apprezzamenti degli spettatori, il pianista ha infine concesso un bis degno di nota: la dolce cantata di Bach “Schafe können sicher weiden” ridotta per pianoforte, ed una “Play piano play” da saloon western, di Friedrich Gulda.
Il nutrito pubblico (teatro sold out per l’occasione) non risparmia gli omaggi alla performance pianistica ed apprezzamenti per l’evento nel suo complesso, atestimonianza di un interesse superstite per un repertorio, quello novecentesco, tanto denso e sofisticato quanto affascinante.
Torino, domenica 28 agosto: la terza e ultima giornata del TOdays Festival si accende tra il fermento generale, per una serata che si preannuncia densa di musica interessante. La line-up accosta sapientemente le diverse sfumature di un indie rock tutto diviso tra il Regno Unito e gli USA: esordio e chiusura arrivano dalla Scozia, con gli Arab Strap ad aprire e il gran finale con i Primal Scream; i newyorkesi DIIV e gli inglesi Yard Act, nell’ordine, si spartiscono il ripieno dello show.
La golden hour è alle porte: quello che era un piccolo capannello in transenna, nel giro di poco si è trasformato in una folla nutrita ed effervescente. Che l’evento abbia inizio.
La band di Aidan Moffat si presenta sui colpi serrati di un ritmo elettronico: è “The Turning of Our Bones”, che prende forma dal suo minimale riff di chitarra. Il frontman, look a dir poco coraggioso – camicia nera e jeans bermuda – attacca con un testo dalla metrica concitata, perfetto per una voce a tinte fosche come la sua. I suoni di chitarra, generalmente puliti, si mantengono su queste coordinate per tutto lo show, mentre il gruppo sfoggia una presenza poderosa nel suo stile caratteristico. I ritmi si infiammano con gli influssi dance in tempo dispari di “Compersion Pt. 1”, per poi distendersi drammaticamente con “New Birds” e riaccendere tutto nel finale, nell’elettronica forsennata di “TheFirst Big Weekend”. Moffat si destreggia anche su un sintetizzatore e su un pad elettronico. Grande performance, contrassegnata in larga misura da mood musicali e testuali vagamente – nettamente, in alcuni casi – sinistri.
È poi il turno dei DIIV, che si presentano ostentando un distacco solo di facciata. Zachary Cole Smith prende posto sul palco e presenta con poche parole la band: comincia così “Loose Ends”. La qualità live è ottima e incorpora le peculiarità della produzione musicale del gruppo: protagonisti assoluti gli intrecci melodici tra chitarre effettate, con echi onirici tra lo shoegaze e il dream pop. A prendersi la scena è il chitarrista Andrew Bailey, immerso con lo strumento in un mondo tutto suo, a partire dai capelli annodati in due trecce sulle spalle e dalle smorfie istrioniche che ne fanno un personaggio. Picchi di adrenalina durante “Under the Sun”, scandita a gran voce dai presenti, gli stessi che pogano sfrenati a partire dalla potentissima “Doused”, tratta dall’album d’esordio Oshin (di cui si festeggia il decennale), e fino alla fine della scaletta. Chiusura degna con “Blankenship”; merita una menzione anche la componente ritmica, con la devastante batteria di Ben Newman ed il basso di Colin Caulfield.
Gli Yard Act, band più giovane della serata (formatasi 3 anni fa, con album d’esordio lo scorso gennaio), salgono sul palco con personalità: il cantante James Smith si contraddistingue prontamente per il suo fare loquace, prima di immergersi a capofitto nel groove deciso e scanzonato di “Dark Days”. Il batterista Jay Russell e il bassista Ryan Needham compongono un duo tagliente, ed è proprio lungo le coordinate del ritmo che la band inglese si muove, ritmo cui i pungenti riff chitarristici di Sam Shjipstone – apprezzabili e apprezzati – cedono in generale il passo. Molto orecchiabile “Land of the blind”, molto incisiva la title track “The Overload”, molto accattivante “Rich”: il complesso mostra grande grinta, unita ad un atteggiamento spregiudicato di ispirazione quasi punk (o meglio, post-punk). Smith ama raccontarsi e raccontare le storie dietro ai brani, e la folla gli dà tutta la soddisfazione che merita la sua presenza scenica.
Dulcis in fundo, i Primal Scream: le premesse sono ottime, specie se aggiungiamo l’hype generato intorno all’annunciata esecuzione di Screamadelica. La partenza sicuramente ha molta elettronica, con “Swastika Eyes”: Bobby Gillespie ha addosso i colori e il disegno del loro disco più famoso, suona le maracas, e naturalmente accentua il suo ruolo di leader. Anche con “Pills” e “Deep Hit of Morning Sun” – dedicata al compianto Mark Lanegan –la linea continua; a metà dell’esibizione, però, la rotta cambia improvvisamente, abbandonando le sonorità da rave per atmosfere più intime, come in “English Town”, oppure più classicamente rock, come nella celebre “Movin’ on Up” (primo pezzo tratto da Screamadelica) o in “Country Girl”. Morale della favola, i brani dello storico album sono soltanto due, tra cui “Loaded”, suonata in chiusura dopo aver fatto credere a tutti che il concerto fosse finito. Purtroppo, per quanto riguarda i Primal Scream sembra mancare qualcosa: lo si è percepito anche da una certa stanchezza (forse mista a delusione) aleggiante tra il pubblico. Evidente il gap tra le aspettative e l’offerta della band, che ha comunque regalato momenti divertenti e altri di vigore ed esaltazione.
Una timida pioggia ha iniziato a scendere proprio verso il termine dell’evento; nel complesso, una grande serata e una conclusione in bello stile per questa edizione del TOdays, che ha regalato spunti di rara bellezza dall’immenso patrimonio della musica indipendente. I quali, si spera, saranno fonte di ispirazione per migliaia di musicisti, e non solo a Torino.
Continua il racconto del TOdays Festival, con la seconda giornata che si è svolta sabato 27 agosto. Il pubblico accorso a sPAZIO211 è piuttosto internazionale ed è pronto a godersi una line-up di generi diversi, ma all’insegna della musica suonata. Gli spettatori si godono l’aria da festival che si respira nella periferia torinese, bevendo una birra in compagnia e discutendo di musica.
L’atmosfera si scalda quando a salire sul palco è la band inglese Squid, che con il suono distorto e sporco è in grado di catturare il pubblico dal primo istante. Il revival post-punk sta attualmente vivendo la sua golden age, grazie a band che si fanno portavoce di un sound anni Settanta e Ottanta, come – tra le tante – i Fontaines D.C., gli Idles e gli Shame. Gli Squid, originari di Brighton, non sono da meno: l’album d’esordio Bright Green Field, uscito dopo una serie di ep validi, ha convinto gli spettatori del festival, che hanno accolto il quintetto a colpi di headbanging e pogo sfrenato.
Ollie Judge, batterista e al tempo stesso tempo vocalist della band, è l’anima punk del gruppo, che a furia di colpi su piatti e rullante dà il groove per la schizofrenia mostrata sul palco. Il loro set è un susseguirsi frenetico di brani feroci, che si alternano a jam strumentali, beat elettronici, momenti ambient per soli fiati e cenni jazz. Tra i brani proposti c’è “Narrator”, otto minuti in pieno stile Talking Heads e Wire che sfocia in una frenesia di voci sconnesse, e le immancabili “Houseplants” e “G.S.K”. Lo sperimentalismo degli Squid è la ricetta giusta per scaldare i motori per il resto della serata.
Congedati gli Squid è tempo di cambiare decisamente atmosfera. Sul palco salgono le Los Bitchos, quartetto tutto al femminile proveniente da Londra. La band propone un vero e proprio party strumentale, fatto di rimandi caraibici e di ritmi della cumbia colombiana. L’assenza dei testi nei loro brani non si fa sentire: la loro performance convince gli spettatori, che improvvisano anche qualche passo di danza in maniera spensierata. La fine dell’estate alle porte non intacca lo spirito del pubblico, che si gode l’atmosfera gioiosa a mo’ di festa sulla spiaggia.
La loro musica dance rock dall’energia contagiosa ha attirato l’attenzione di molti, tra i quali Alex Kapranos dei Franz Ferdinand. Il loro album d’esordio Let the Festivities Begin! – eseguito per intero sul palco di Torino – è stato infatti prodotto dal frontman della band inglese.
La serata prende una svolta quando sul palco salgono i Molchat Doma. “Il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco” cantavano i Subsonica ed è proprio così che è andata durante l’esibizione della band bielorussa. I fulmini hanno contribuito alla scenografia, fino a quando la minaccia non si è trasformata in un temporale torrenziale. Paradossalmente lo scenario perfetto per la musica dei Molchat, che con il loro sound dark hanno trasportato il pubblico in una dimensione crepuscolare.
Una miscela vincente di post-punk, new-wave e synth-pop, con influenze dei Joy Division e dei Cure (da segnalare a proposito l’apertura di un brano con il riff iniziale di “A Forest”). La voce cupa di Egor Shkutko e l’uso massivo del synth da parte di Roman Komogortsev convincono gli spettatori, che cercano un riparo dalla pioggia senza perdere di vista ciò che accade sul palco.
La pioggia cessa e uno scosso pubblico torna in un parterre ormai inondato dal fango. Ma per FKJ aka French Kiwi Juice – il producer e polistrumentista francese nu jazz di musica elettronica – si può sopportare il disagio provocato dal maltempo. L’eleganza della sua musica è testimoniata dall’allestimento del palco: un salotto con tanto di divani e lampade dalla luce calda, che rendono il clima familiare. FKJ ringrazia il pubblico per essere rimasto nonostante la pioggia, dopodiché attacca a suonare, destreggiandosi con talento tra tastiere, chitarre, loop station e strumenti a fiato. Il temporale, però, torna in maniera ancora più intensa e i fan si dividono tra chi torna a casa in anticipo e chi balla sotto il diluvio. “The show must go on”, dunque il polistrumentista e i musicisti proseguono proponendo un’esibizione sensoriale, ricca di melodie jazz. “Tadow”, il suo brano più famoso, chiude il concerto ed è il premio finale per i più temerari.
Sul cammino di casa c’è la sensazione di aver vissuto due realtà opposte: da una parte l’energia dei Squid e il party delle Los Bitchos, dall’altra la cupaggine dei Molchat e le vibes ipnotiche di FKJ. Comunque sia, anche nel day two il pubblico esce soddisfatto dalle quattro ore di live.
Venerdì 26 agosto nel cortile di sPAZIO211 si è tenuta la prima giornata del TOdays, il festival torinese dedicato alla musica alternativa. Il pubblico è transgenerazionale, data la ricca proposta della rassegna, che vede esibirsi quattro artisti differenti per tre serate dal 26 al 28 agosto.
Il primo artista ad esibirsi è Eli Smart, cantautore delle Isole delle Hawaii trapiantato a Liverpool che ha preso il posto dei Geese nella line up del festival, dopo l’annullamento del tour europeo del gruppo. Il cantautore, accompagnato dalla sua band, stupisce parlando un italiano quasi perfetto e confessa di sentirsi a casa, rivelando le sue origini venete. Imbraccia la chitarra e presenta il suo ep Bonnie Town, ricco di melodie orecchiabili e dallo stile vintage, in pendant con la sua camicia a righe rosa e i Levis sbiaditi. Smart si diverte e fa passare una mezz’ora di leggerezza al pubblico, che lo accompagna tenendo il ritmo con le mani, in particolare duranti i brani “Come on, Come on, Come on” e “Hold on the Feeling”.
Successivamente è il turno dei Hurray For The Riff Raff, capitanati dalla frontwoman Alynda Lee Segarra, che sfoggia un’acconciatura mullet alla David Bowie. L’energia è evidente sia sul palco che tra il pubblico, che inizia ad assieparsi sempre di più sottopalco mentre il buio inizia a fare capolino su Torino. La band statunitense presenta l’ultimo album Life on Earth, uscito lo scorso febbraio. I testi dei brani trattano il rapporto dell’uomo con la natura, mentre il sound risulta elettronico e ritmico, con una presenza centrale affidata ai synth, che sprigionano un collage di suoni dissonanti.
Grande attesa per la terza band: i Black Country, New Road. I giovanissimi inglesi partono timidamente a suonare, mostrando un bagaglio tecnico interessante. Tuttavia, la loro performance non convince. Il motivo? Il frontman Isaac Wood ha abbandonato il gruppo dopo l’uscita del secondo album, sull’onda di un successo che etichettava la band come una delle più interessanti del panorama post-punk attuale. La mancanza del cantante non è stata tempestivamente colmata, ma al contrario il gruppo risulta ancora privo di una voce leader. Sul palco i membri della band si alternano infatti tra di loro, cantando varie parti di ogni brano, inedito o proposto in una versione del tutto rivisitata. Chi si aspettava di ascoltare i successi di For the first timee Ants From Up There è rimasto deluso dall’ora scarsa di live.
Un live che è stato teatrale, con suoni a tratti avanguardistici, come quello del basso suonato con l’archetto del violoncello. Nonostante il loro evidente talento i BCNR non sono però animali da palcoscenico e la loro staticità non coinvolge il pubblico. Non si può, però, non provare empatia e comprensione per un giovane gruppo che sta cercando una nuova dimensione per ripartire.
Il nome più atteso è quello di Tash Sultana, che sale sul palco alle 23:00. L’artista australiana si presenta inizialmente in solitaria, accompagnata dalla miriade di strumenti che affollano il palco: una Stratocaster, una Telecaster, una chitarra acustica, un basso, un synth, un sassofono, una tromba, un flauto traverso e un ricco strato di pedaliere ai suoi piedi. Ciò che più sorprende è che ogni strumento viene suonato dall’artista con una tecnica impeccabile, che lascia a bocca aperta i presenti. Il suo talento è evidente come polistrumentista, vocalmente ma anche come intrattenitrice: Tash Sultana ha personalità e sa coinvolgere, correndo instancabilmente da una zona all’altra del palco. In scaletta si susseguono principalmente i brani del suo ultimo lavoro Terra Firma – proposti in una versione strumentale arricchita e piena di loop -, ma anche alcuni del suo repertorio precedente, tra i quali “Notion” e “Jungle”.
Il groove elettrizzante e i riff ipnotici di Tash Sultana chiudono la prima giornata del TOdays, che nella prima serata si conferma all’altezza delle aspettative, soprattutto grazie alla sua memorabile performance.
Prosegue il racconto del festival Apolide nella sua quarta giornata di domenica 24 luglio all’interno dell’area naturalistica Pianezze di Vialfré. Dopo un traumatico risveglio in tenda e reduce dai postumi della sera prima, il pubblico è pronto a godersi l’ultima giornata tra attività, musica e spettacoli. In chiusura di questa edizione di Apolide, un’esibizione magistrale dei Calibro 35 sulle note del maestro Ennio Morricone.
Sono le nove del mattino quando il primo caldo comincia a farsi sentire nelle tende del Joongla Camp, dove «si dorme poco ma si sogna tanto». I più mattinieri inaugurano la processione verso le docce, gli sguardi assonnati si incrociano e la sensazione è quella di far parte di una grande famiglia, seppure per un paio di giorni. Tra un caffè ed un morso ad una brioche si fanno due chiacchiere e ci si scambia qualche opinione sulle serate precedenti.
Fra le prime esibizioni della giornata c’è quella di Lorusso sul Boobs Stage. Spogliato dei suoi strumenti, Lorusso – progetto solista del torinese Claudio Lo Russo, voce e chitarrista degli Atlante – si cimenta nella produzione musicale accompagnandosi con la sua inconfondibile voce mentre il pubblico, seduto a terra, si gode l’esibizione.
È sufficiente percorrere qualche metro per rendersi conto che il festival è abitato da diverse anime. Contemporaneamente alle esibizioni sono infatti numerose le attività proposte: non è affatto strano imbattersi in sessioni di yoga mattutine, tornei di pallavolo amatoriali e spettacoli irriverenti come quello del burattinaio Rasid Nikolic, in arte The Gipsy Marionettist. Per i più atletici non mancano proposte più estreme come la parete da arrampicata o i tessuti aerei per la danza acrobatica.
Il pomeriggio scorre veloce e intorno alle 18.30 il main stage comincia ad animarsi, vedendo sfilare in ordine Marco Fracasia, MeskeremMees, Bluem. Direttamente da Torino, Marco Fracasia porta sul palco di Apolide il suo primo sognante EP, Adesso torni a casa (per 42 Records) in una versione live rockeggiante. Segue la cantautrice belga Meskerem Mees, che colpisce per la voce pura e malinconica, in un accompagnamento minimal composto da chitarra e violoncello.
Il sole comincia a tramontare e la tappa all’Area Food è d’obbligo per ristorarsi dopo una giornata di sole e musica non stop. I più attendono il gruppo a cui spetta il compito di chiudere in bellezza l’edizione 2022 del festival, ovvero i Calibro 35.
Il loro ultimo disco, Scacco matto al Maestro – Volume 1, tutto dedicato alla musica di Morricone, viene eseguito sul palco di Apolide in un’atmosfera solenne come solo la musica del compositore sa creare. La band non si limita a ricreare le melodie del “Maestro”: si tratta di vere e proprie reinterpretazioni dei brani alternati con stralci di dialoghi, estratti talvolta dai film, talvolta dal recente documentario Ennio di Giuseppe Tornatore. La folta formazione – che oltre a Massimo Merlotta, Enrico Gabrielli, Fabio Rondanini, Luca Cavini e Tommaso Colliva conta della collaborazione di Paolo Ranieri alla tromba, Sebastiano De Gennaro alle percussioni e Valeria Sturba al theremin, violino e voce – dà vita ad uno spettacolo mai banale e dinamico, con tanto di theremin alternato alla voce per le linee vocali.
La varietà del pubblico conferma la transgenerazionalità della musica di Morricone, chiusura perfetta per i quattro giorni di Apolide.
Nell’area naturalistica Pianezze, nel piccolo borgo di Vialfrè, giovedì 23 luglio si è tenuta la terza giornata di Apolide, il festival che unisce musica, natura ed arte nel cuore dei boschi delle Valli del Canavese.
Apolide non è solo musica live, ma molto altro; l’area del festival è vasta: vi sono diversi spazi per lo sport, il campeggio, i workshop creativi e il market di prodotti artigianali. Il pubblico che si riversa nella cornice fiabesca di Vialfrè è lì per godersi l’esperienza a 360° e dall’abbigliamento ricorda lo spirito hippie di Woodstock: vestiti colorati, fiori tra i capelli, bigiotteria vistosa, birra a volontà e tanta voglia di evadere dal caldo torrido della città.
Il festival si svolge in tre spazi principali: la Boobs area, dedicata ai live in acustico, alle interviste e alle presentazioni; il Soundwood, per dare spazio a dj e producer del panorama della musica elettronica underground e il Main Stage, sul quale sabato 23 si sono esibiti tre artisti: Emma Nolde, LNDFK e Venerus.
Sono le 20:00 in punto quando Emma Nolde sale sul palco. La cantautrice toscana attira una timida folla sottopalco, che con il passare delle canzoni via via aumenta. Il suo talento è evidente: si destreggia tra uno strumento e l’altro, accompagnando i suoi brani con la chitarra (sia elettrica che acustica), il basso e il pianoforte. I brani proposti sono quelli del suo album d’esordio Toccaterra, ma c’è spazio anche per due inediti e per il nuovo singolo “Respiro”, prodotto in collaborazione con Motta. Le ballate introspettive e malinconiche si alternano a momenti elettronici in cui scatenarsi. La cantautrice classe 2000 si conferma un nome da tenere sott’occhio per il futuro.
Dopo una breve pausa sul palco sale LNDFK. La songwriter e producer presenta dal vivo Kuni, concept album che tocca temi di amore e morte. Gli ingredienti della sua musica? Il neo soul, il nu-jazz e il beatmaking tra l’astratto e il lo-fi. Il sound crea un’atmosfera sospesa, fatta di introspezione e psichedelia, come confermano i titoli di due dei brani proposti: “How Do We Know We’re Alive” e “Don’t Know I’m Dead Or Not”. Il pubblico sembra dimenticarsi momentaneamente l’ambiente circostante e fa un viaggio in una galassia lontana.
Il terzo artista ad esibirsi – nonché quello più atteso – è Venerus. Il live può essere riassunto con una frase del suo brano “Ogni pensiero vola”, che fa da dichiarazione d’intenti: «Forse è che appartengo a un mondo un po’ magico / vorrei volare via lontano da qui / e a volte sento tutto attorno un po’ strano / chissà se qualcun altro è fatto così». Il tour “Estasi degli angeli” ha un fil-rouge: la musica e l’amore, in tutte le sue forme. La musica è al centro della scena tramite lunghe parti strumentali e assoli; l’amore tramite il clima di libertà che si percepisce sul palco e tra i fan. Il concerto sembra un lungo flusso di coscienza (per dirla alla James Joyce), tant’è che spesso si fa fatica a percepire i passaggi da un brano all’altro.
Freak e ribelle, Venerus fuma e beve sul palco, si sdraia per terra per suonare la sua Telecaster e invita il pubblico a baciarsi. I brani che si susseguono in scaletta sono tratti dal suo album Magica Musica, ma c’è spazio anche per i brani più vecchi e apprezzati dai fan, come “Love Anthem, No. 1” e “IoXTe”.
Prima di salutare, l’artista annuncia che assieme alla sua squadra gestirà una nuova etichetta musicale dal nome ancora inedito. Il logo, però, è disegnato su una bandiera che lo stesso Venerus sventola tra gli scroscianti applausi dei presenti.
La giornata del festival si chiude con il dj-set di Napoli Segreta, il collettivo che propone brani disco funk degli anni ’70 e ’80. Il pubblico si scatena con le ultime energie rimaste, a conclusione di una giornata perfetta, vissuta senza freni inibitori in nome della musica e del divertimento.
A cura di Martina Caratozzolo
(credit immagine in evidenza: pagina ufficiale Facebook Apolide)
Doppietta romana alla Palazzina di Caccia di Stupinigi per questa calda caldissima edizione 2022 del Sonic Park. Lo scorso mercoledì 20 luglio Mara Sattei prima e Carl Brave poi hanno animato un pubblico scarno ma entusiasta. Una sorridente ed emozionata Mara arriva sul palco puntuale, in un outfit total black con giacca a maniche lunghe, che fa un po’ soffrire visti i quarantasette gradi percepiti nel pit. Ma non importa: sono quisquiglie da stories su Instagram e giornaletti di lifestyle della domenica. Lei è raggiante, fresca, brilla anche se il sole è nascosto dietro un cielo velato e un tramonto poco rosa.
Non è un animale da palcoscenico, ma poco importa. Ha tutto il tempo per imparare una disinvoltura che non per tutti è innata. Non serve atteggiarsi da artisti navigati, quando evidentemente non lo si è. Il pubblico apprezza: è un tutto un vociare di “che carina”, “la amo”, “che brava”. Una carrellata di pezzi più o meno conosciuti, di singoli più vecchi e più nuovi. Qualcuno canticchia e balla, ma l’energia c’è, sopra e sotto il palco. Mara ha una voce potente, squillante, luminosa – come lei – che funziona bene sui pezzi uptempo come sulle ballads.
Fa storcere un po’ il naso vederla relegata alla voce femminile di turno in operazioni come “La dolce vita” di Fedez, in cui Tananai fa Tananai e sono tutti contenti, ma la Sattei è costretta nel ruolo dell’Orietta Berti di turno, e finisce lì. Consiglio spassionato: più collab con suo fratello Tha Supreme, meno hit estive.
È già notte quando iniziano i primi canti spazientiti a suon di “Carlo, Carlo”, le lamentele per l’attesa e per il caldo. E alla fine, dopo l’entrata in scena della sua numerosa band con tanto di sezione di fiati, “Carlo” arriva. Saltella da un lato all’altro del palco, saluta i fan in autotune, tutto regolare.
Anche Carl Brave non è un super performer, ma fa quello che deve fare: ha energia, interagisce con il pubblico e con la band quanto basta, canta pezzi dal nuovo album e vecchi successi. Quello che funziona più di tutti è lui: l’atteggiamento da personaggio-macchietta di Roma Sud rappresenta esattamente quella che è la sua narrativa, la sua cifra stilistica e quello che i fan vogliono vedere. Le “tre bire”, guardie di qua, guardie di là – in una malsana ossessione per la Polizia che è tutta da comprendere, goliardici racconti di serate alcoliche al Pigneto e tutto il resto.
Carl funziona molto più sul pop scanzonato e ironico, piuttosto che in romantiche ballad che si prendono troppo sul serio. Apprezzabile il duetto a sorpresa con la Sattei per la super hit “Spigoli”, che il pubblico canta a squarciagola e sa a memoria. In fin dei conti, la soddisfazione di chi paga un biglietto è quello che conta più di tutto e a giudicare dalle urla, le lacrime, le videochiamate alla migliore amica che non è potuta venire e le coppiette innamorate che ballano, è andato tutto bene.
L’ultima giornata del festival Luppolo in Rock, domenica 17 luglio,è stata una full immersion nelle sonorità metal più classiche e ortodosse. Direttamente dalla Bay Area di San Francisco, si sono esibiti infatti sul palco Cremonese Testament, Exodus e Heathen, ovvero tre dei nomi più rappresentativi della scena thrash metal californiana per anzianità di carriera e repertorio. Purtroppo, a causa di ritardi accumulati alla partenza perdiamo l’esibizione dei nostrani Skanners ed Extrema, giungendo al Parco delle Colonie Padane giusto in tempo per lo show degli Heathen.
Il concerto degli Heathen è un evento nell’evento. La band suona per la prima volta in Italia dopo più di un decennio, ma il tempo non sembra aver infiacchito i musicisti, protagonisti di uno show all’altezza delle aspettative. Gli Heathen non sono di certo una band prolifica in termini di repertorio (hanno all’attivo solo quattro dischi in più di trentacinque anni di carriera), tuttavia la qualità dei brani in scaletta, uniti ad una prova energica e chirurgica hanno portato alla giusta temperatura il pubblico. Come ci si poteva immaginare è stato dato ampio spazio alle canzoni di Empire of The Blind, ultimo lavoro in studio del gruppo uscito nel 2020 e che solo ora sta avendo modo di essere testato in sede live a causa della pandemia. Le canzoni tengono assolutamente testa ai classici più datati, come per esempio l’eccellente singolo incalzante e massiccio “Blood To Be let”. Ovviamente però sono i cavalli di battaglia “Goblin’s Blade”, “Death By Hanging” e “Hypnotized” a fare sfaceli tra il pubblico, che entusiasta innesca i primi poghi della giornata. L’affiatamento della band è evidente e a livello puramente tecnico e di esecuzione non ci sono sbavature di alcun tipo da segnalare. Al contrario, nonostante i volumi non ottimali per la resa delle chitarre -da sempre perno e valore aggiunto della proposta degli Heathen – bisogna dire che il gruppo ha saputo dare prova del proprio valore dimostrando di meritare lo status di cult band conquistato negli anni. Bravi!
Quando gli Exodus salgono sul palco si scatena il finimondo. Il pubblico, già caldo dopo la prova degli Heathen e per la temperatura rovente, implode in un circle pit ininterrotto ed alimentato a birra e thrash metal. È l’atmosfera ideale per assistere al concerto del gruppo, noto sin dagli esordi per le esibizioni energiche e la capacità di coinvolgere la folla. C’è un vero e proprio scambio di energie tra l’audience e gli Exodus e tanto più il pogo diventa scalmanato, tanto più la band suona inferocita. E tutto questo è possibile per pochi, semplici motivi. In primo luogo la scaletta molto intensa e piena di classici come “Bonded By Blood”, “A Lesson In Violence”, “And Then There Were None”, “Strike of the Beast”, “Deathamphetamyne” e l’inno da moshpit per eccellenza The Toxic Waltz da un lato e gli affilatissimi brani estratti dagli ultimi lavori Bood In Blood Out (2014) e Persona Non Grata (2022) che altro non fanno che gettare ulteriore benzina sul fuoco. Oltre ai brani, la band può vantare nel suo organico membri carismatici: il frontman dalla voce alta e strozzata Steve “Zetro” Souza, vero animale da palco e capace di cantare testi chilometrici con un flow quasi rap. O il chitarrista Gary Holt dallo stile tagliente e precisissimo, era molto atteso dal pubblico sia perché le canzoni le ha scritte lui, sia perché era assente dal palco da troppi anni con gli Exodus poiché in prestito ai colleghi Slayer. O ancora il batterista Tom Hunting, autore di una prova maiuscola per cattiveria e precisione nonostante sia reduce da una serie di gravi problemi di salute. E infine perché gli Exodus incarnano l’idea platonica della violenza. Non una violenza gratuita e banale, bensì organizzata, ordinata e perfettamente oliata nella sua cinica efficienza. La loro è un’esibizione che mira alla pancia e all’istinto dell’ascoltatore invitandolo a sfogare catarticamente le sensazioni negative accumulate nel tempo pogando, facendo crowd surfing e l’immancabile wall of death. Al tempo stesso però gli Exodus sanno essere in qualche modo distaccati da tutto ciò sottolineando ironicamente quanto sia solo “a good friendly violent fun in store for all” (da “The Toxic Waltz”).
Il concerto dei Testament è certamente meno irruente rispetto a quello degli Exodus, ma ugualmente valido perché vede protagonista quella che è attualmente e probabilmente la migliore formazione thrash metal sulla piazza. Chuck Billy (voce), Alex Skolnick ed Eric Peterson (chitarre), Steve Di Giorgio (basso) e Dave Lombardo (batteria) dominano la scena potendo contare esclusivamente sull’altissima padronanza tecnica dei rispettivi strumenti, sull’estrema nonchalance con cui eseguono i brani impegnativi per chiunque e su un’intesa reciproca sul palco derivata da anni di tour. Personalmente avevo già avuto modo di vedere i Testament nel 2017 quando al posto di Dave Lombardo suonava Gene Hoglan e le impressioni sono grossomodo le stesse, con la differenza che con l’ex Slayer dietro le pelli i nostri hanno guadagnato in termini di groove e potenza. Le rullate e i fill di Lombardo sono sempre nervosi e venati da un approccio hardcore che rende le canzoni vibranti, energiche, vive. Per carità, Gene Hoglan gli è probabilmente superiore tecnicamente, ma nei Testament si è sempre limitato ad essere un turnista di lusso perfetto per macinare le ritmiche senza cedimento alcuno e nulla di più. Lombardo è il batterista metal per eccellenza ed è perfetto in questo contesto perché, oltre ad essere impeccabile, riesce in qualche modo a personalizzare ciò che suona col suo particolare stile esecutivo. E si sente. Soprattutto quando i Testament si lanciano a testa bassa sull’esecuzione dei loro classici da “The New Order” a D.N.R (Do Not Resuscitate), a “Souls of Black” fino alle acclamate e conclusive “Over the Wall” e “Alone in the Dark” riproposta in una versione allungata pensata appositamente per far cantare l’ultimo coro del festival al pubblico.
Nel complesso l’ultima giornata del Luppolo in Rock è trascorsa in modo molto piacevole e per una volta, ci è sembrato quasi di non essere ad un tipico festival musicale italiano. L’ottima selezione musicale unita all’offerta gastronomica e alle buone birre artigianali vendute a prezzi onesti ci hanno fanno intendere che eventi di questo tipo possono svolgersi anche nel Belpaese, dando ai metallari tricolori un modello di festival di cui andare finalmente orgogliosi.
Dopo una pausa di quasi otto anni, Stromae torna a far ballare i suoi fan portando in tour il suo ultimo disco Multitude. Abbiamo assistito alla data del Milano Summer Festival nella torrida e polverosa serata di mercoledì 20 luglio, presso l’Ippodromo Snai San Siro.
Un ritorno molto atteso dal suo pubblico, che in diverse occasioni durante il concerto ha manifestato l’affetto nei confronti del cantante. A scaldare l’atmosfera prima dell’arrivo del maestro ci hanno pensato Rhove e Margherita Vicario.
Sono circa le 21.30 quando il palco del Milano Summer Fest si appresta ad accogliere il protagonista della serata. Dopo quasi cinque anni di assenza Paul Van Haver, in arte Stromae, aveva annunciato il suo ritorno ad ottobre 2021 con l’uscita del singolo ”Santé” e la pubblicazione del suo terzo disco Multitude prevista per marzo 2022. Un disco dalle tematiche complesse, frutto di un periodo di disagio psicologico e riflessioni che Stromae racconta all’interno dei suoi testi.
Le luci si spengono e la folla viene catturata da un elaborato apparato scenografico dalle tinte futuristiche. Su un’imponente parete di led viene proiettato un filmato d’apertura in stile cartoon che vede come protagonista Stromae; sul palco i musicisti prendono posto dietro agli strumenti e finalmente fa il suo ingresso l’artista con un outfit che riprende il videoclip del singolo ”Santé”.
Nonostante la scenografia imponente, lo spettacolo pone al centro la musica: Stromae è un fuoriclasse capace di trascinare il pubblico in un’altalena di emozioni. All’esecuzione dei brani del nuovo album, dai toni più cupi rispetto ai suoi precedenti lavori, alterna alcune delle hit più note di Racine Carrée. Brani che, nonostante la diversità nel genere, sono tutti accomunati dalla profondità delle tematiche trattate e che hanno fatto di Stromae un sincero narratore della contemporaneità. Il coinvolgimento del pubblico è totale, lo dimostrano diversi episodi in cui l’unisono delle voci protrae la durata delle canzoni oltre la loro naturale conclusione. A far esplodere la folla verso la fine del concerto e a rendere la location del Milano Summer Festival una discoteca a cielo aperto è ”Alors on Dance’’, inno EDM che invita a dimenticare i problemi quotidiani per una sera e che ha reso celebre Stromae a livello mondiale. A chiudere è una versione a cappella di ”’Mon Amour”, che porta il pubblico in uno stato di religioso silenzio culminando in un fragoroso applauso di commiato.
Stromae dedica una particolare cura nel nominare tutti coloro che hanno reso possibile questo tour, tanto da proiettare a concerto concluso, come nei titoli di coda di un film, il nome di ciascun membro del suo team. Ciò che rimane dopo uno spettacolo di tale portata è l’impressione di aver preso parte ad un evento unico nel suo genere, frutto della genialità di un artista con la a maiuscola.
Iniziato il 29 Giugno, il Flowers Festival 2022 si è concluso il 16 luglio 2022 con il concerto della cantautrice Ariete, che si è raccontata sul palco in modo semplice e spontaneo.
Con Specchio Tour 2022 Ariete è già al suo secondo tour a soli vent’anni d’età. La giovane cantautrice ha avviato la sua carriera negli anni della pandemia, e in poco tempo le sue canzoni di carattere intimo hanno fatto il giro di tutta Italia; indubbiamente la sua fama è figlia dei social network: su TikTok vanta 514.7K di followers e negli anni è stata capace di costruire un ottimo dialogo con i suoi fan.
La platea è gremita di ragazzi, pronti a riprendere con il cellulare il suo arrivo sul palco. Dopo una lunga attesa ecco comparire Ariete (pseudonimo di Arianna Del Giaccio) vestita con una salopette di jeans e un cappellino arancione. Emerge subito la personalità trasparente e priva di ambiguità della cantautrice: caschetto nero, identità gender fluid e voce inconfondibile. Ad aprire il concerto è il brano “L’ultima notte”, cantata e suonata con la chitarra elettrica dalla stessa Ariete, mentre per i pezzi successivi viene raggiunta da Emanuele Fragolini alla batteria, Jacopo Antonini al basso e alle tastiere, e Alessandro Cosentino alle chitarre.
Durante tutto il concerto i fan lanciano e regalano ad Ariete in segno di affetto i più disparati oggetti, tra cui un reggiseno con all’interno delle sigarette, una bandiera della pace, delle ciabatte a forma di unicorno… tutte cose che la cantante userà sul palco durante la sua performance. Ariete si dimostra molto gentile verso tutti, reagendo a ciò che succede con una grande ironia e leggerezza.
A circa metà concerto arriva l’evento più atteso dai fan: come è tradizione nei suoi concerti, Ariete sceglie due persone dal pubblico che abbiano qualcosa di importante da dire, a cui tengano particolarmente, dandogli la possibilità di salire sul palcoscenico. La cantautrice prima suona una versione acustica di “Venerdì” e poi dà la parola a Sara e a Sofia. La prima fa un appello per chi soffre di autolesionismo, e condividendo la sua esperienza, sprona a perseguire il proprio benessere mentale, mentre la seconda celebra l’anniversario di due amici, leggendo la loro storia d’amore. Il pubblico ascolta partecipe e la cantante è in grado di fare da mediatrice, in modo che non sia pura esibizione del dolore, ma piuttosto racconto e condivisione.
Uno dei momenti più emozionanti di tutto il concerto è l’esecuzione di “Spifferi”: da sola sul palco, Ariete canta accompagnandosi al piano, e il pubblico, con tutte le luci accese e alzate al cielo, si emoziona e canta il brano con le lacrime agli occhi.
A un primo ascolto potrebbe trasparire dai testi di Ariete una sorta di ingenuità, ma dietro cui c’è anche una grande consapevolezza. Per quanto le sue canzoni sembrino avere poco a che fare con una vera e propria scrittura musicale, ma risultino piuttosto essere dei flussi di coscienza confidenziale accompagnati dalla musica, bisogna riconoscere il grande talento dell’artista che, sostenuta da tutto il suo team, è in grado di far vivere ai fan un concerto in cui si possano sentire a casa; concetto perfettamente espresso dalla frase «Le mie braccia sono il posto in cui potrai ripararti, in cui potrai ripararti» del brano “Cicatrici” scritto in collaborazione con Madame, con cui Ariete chiude il concerto.
Non ci poteva essere dunque titolo più azzeccato per il primo album della cantante, Specchio, uscito 25 febbraio 2022 con l’etichetta Bomba Dischi: una generazione si è riflessa nei suoi testi, e in ciò va ricercata senz’altro la radice del successo di Ariete. La musica ha aiutato lei e ora, a specchio, aiuta i suoi fan. Le sue canzoni si trasformano in uno strumento per affrontare le montagne russe e le insicurezze tipiche dell’adolescenza, diventando per i giovani ragazzi un modello a cui fare riferimento.
A cura di Stefania Morra
La webzine musicale del DAMS di Torino
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