Tutti gli articoli di Ottavia Salvadori

Le sfumature dell’amore: orchestra e coro dell’Opéra de Lyon

Che cosa, se non l’amore, ha il potere di elevare l’animo umano verso paradisi incontaminati, dove il tempo si sospende e la realtà diventa sogno? L’amore, con le sue gioie e sofferenze, è da sempre musa ispiratrice dei compositori di ogni epoca e, il 14 settembre 2024, MiTo Settembre Musica ha scelto questo sentimento come filo conduttore della serata, proponendo un viaggio sonoro e immaginifico. Un doppio concerto, all’Auditorium Giovanni Agnelli, che vedeva come protagonista – e artefice della scoperta delle più sottili sfumature sonore ed emotive – l’orchestra dell’Opéra de Lyon diretta da Daniele Rustioni, interprete acclamato dai principali teatri d’opera internazionali.

Foto di Ottavia Salvadori

Cina e Francia (in prima serata) e Grecia (in seconda serata) sono i luoghi da cui provengono le tre storie che stimolano la creatività dei compositori, i cui brani sono stati eseguiti magistralmente e con un’intensità emotiva che spinge verso i limiti dell’immaginazione.

La leggenda cinese del dio del cielo e della dea delle nuvole, narrata nel poema sinfonico Les eaux célestes da Camille Pépin, è una storia d’amore dipinta in quattro piccoli, ma intensi, quadri: i primi movimenti armoniosi degli archi, sembrano subito aprire una porta che fa accedere ad un mondo incantato e naturale. Un tappeto sonoro tessuto da archi e fiati dapprima è caratterizzato da suoni impalpabili e sfumati che fanno emergere progressivamente le note acute dei flauti traversi e, infine, si trasforma in un movimento meccanico, vorticoso, con note reiterate. Scelta musicale che ha radici dirette nella leggenda: un preannuncio all’arrivo degli uccelli, gli unici che attraverso la costruzione di un ponte permetteranno ai due amanti di ritrovarsi e la rappresentazione sonora dell’orditura e tessitura delle nuvole.
Un brano caratterizzato da un climax sonoro crescente che segue l’andamento della storia. La tensione cresce, la densità sonora aumenta, gli archi si fanno più agitati, i colori sembrano sempre oscillare tra scuri e limpidi, dando l’impressione che il mondo fantastico sia sempre un posto felice, sicuro e tranquillo anche nel momento del dolore.

Foto di Ottavia Salvadori

Di tutt’altro colore è il poema sinfonico di Schönberg, più oscuro e malinconico. Pelleas und Melisande è una storia d’amore tragica, un dramma che ha stimolato diversi compositori, tra cui Debussy che ne trae un’opera lirica e lo stesso Schönberg che, al contrario, propone un poema sinfonico per orchestra, lasciando spazio ai soli strumenti di rappresentare i sentimenti e il tormento d’amore che porta alla morte. Un giovane compositore, Schönberg, che ancora non ha sviluppato a pieno le tecniche dodecafoniche, ma che crea un’opera intensa e complessa, dove i suoni si intrecciano e scontrano.
Il palco si riempie di strumenti, l’organico si amplia soprattutto nella sezione dei fiati con tromboni, trombe, corni inglesi, clarinetto basso, oboi, fagotti e molti altri.
Alle orecchie del pubblico, l’opera appare come una narrazione fluida che attraversa diversi stati emotivi passando dalla calma melodica – ma sempre incerta – a momenti di massima tensione tragica con cambi rapidi di intensità e motivi dissonanti ricchi di passaggi contrappuntistici. Ogni personaggio sembra avere il suo tratto caratteristico e questo porta ad un continuo mescolamento di motivi differenti per atmosfera e nuance.

Il pubblico, curioso di riascoltare nuovamente l’orchestra, non si è lasciato sfuggire l’opportunità di assistere anche al secondo concerto in programma. Dopo un momento di convivialità, tra cibo e bevande, è il momento di tornare nel luogo dove tutto ha avuto inizio: la sala dell’auditorium che ha rivisto occupate tutte le sue sedute.
Procede dunque la serata; questa volta sul palco anche il coro dell’Opéra de Lyon, composto da una quarantina di elementi, per eseguire Daphnis et Chloe di Ravel: “sinfonia coreografica” – come la definisce lo stessocompositore – che accompagna il pubblico attraverso la storia tragica, ma a lieto fine, del pastore Dafni e della sua amata Cloe.
L’orchestra amplia nuovamente il suo organico con la macchina del vento e nuovi strumenti a percussione, tra cui xilofono e campanelli. Violoncelli prima, e arpe poi catapultano nuovamente il pubblico in un mondo onirico, con note in pppp quasi impercettibili;si aggiungono poi i corni che introducono la linea melodica, proseguita dal flauto traverso. Una melodia intima e serena, ma che porta con sé sin dall’inizio un velo di inquietudine che viene ulteriormente giustificato dalla presenza del coro. La voce, che dà vita ad un canto senza parole, è utilizzata come un vero e proprio strumento musicale che si amalgama e intreccia con l’orchestra. La tensione man mano cresce, così come l’intensità dei suoni che riverberano nella sala arrivando a toccare le corde più intime di ciascuno. La partitura, soprattutto nel secondo quadro, prevede un continuo alternarsi di momenti di calma spirituale a momenti tragici ed energici e la continua mutazione dei temi rende la composizione ricca e mai noiosa.

Foto di Ottavia Salvadori

Daniele Rustioni ha diretto in maniera straordinaria l’orchestra; l’intensità emotiva dei brani non solo si poteva fruire con le orecchie ma anche con gli occhi: i movimenti del direttore, l’energia e la passione espressa dal suo volto hanno dimostrato quanto la musica riesca ad entrare e toccare l’animo di ciascuno. L’orchestra di Lione, così come il coro, è riuscita perfettamente a trasmettere la dolcezza e la tragicità dei brani e i sentimenti, modulando i suoni con grande maestria ma risultando sempre delicati anche nei momenti più intensi.

Due concerti che hanno trasformato la sala dell’auditorium in un teatro d’opera o, per gli appassionati di film, in una sala cinema: uno spettacolo senza immagini e senza attori ma con una musica che è capace di creare reazioni sinestetiche di grande potenza.

A cura di Ottavia Salvadori

Paolo Fresu chiude il Torino Jazz Festival 2024

Anche quest’anno, il 30 aprile 2024, si conclude il Torino Jazz Festival nella giornata internazionale UNESCO del jazz. Una giornata significativa non solo per il festival ma per tutta la musica jazz che, nel corso di questi undici giorni, abbiamo imparato ad apprezzare e amare in tutte le sue forme e declinazioni. 

Stefano Zenni sul palco dell’auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto ringrazia tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del festival, lavorando con passione e con amore per la musica: dagli autisti, al personale di sala, dallo staff tecnico al pubblico e naturalmente gli artisti… la lista sarebbe lunghissima ma è soprattutto doveroso ricordare e ringraziare tutti coloro che stanno dietro le quinte, non sono visibili e non ricevono gli applausi del pubblico. La musica è un fare che si costruisce insieme, tutto e tutti contribuiscono alla creazione di un evento come questo, un festival dalla portata internazionale che unisce e crea legami. 

Sono proprio nuovi legami quelli che ha voluto creare il Torino Jazz Festival per concludere queste giornate musicali, affidando a Paolo Fresu e al suo quintetto, a Paolo Silvestri in qualità di direttore – e non solo – e alla Torino Jazz Orchestra, una produzione originale: un rapporto e un concerto nato proprio dalla collaborazione artistica del festival con gli artisti stessi. 

Paolo Fresu Quintet – foto da cartella stampa TJF

Per celebrare i quarant’anni del quintetto e l’uscita del nuovo album contenente tre dischi totalmente improvvisati, Paolo Silvestri − grande compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra che coniuga jazz e musica contemporanea con musiche popolari spaziando da opere sinfoniche a colonne sonore per film passando per composizioni per spettacoli teatrali e di danza − ha accettato la sfida di trascrivere per orchestra alcune parti dei brani improvvisati. Nasce così un dialogo continuo tra orchestra e quintetto, che sembrano due mondi apparentemente separati: l’orchestra con una formazione tradizionale e schierata mentre, sul lato opposto, il quintetto in piedi, libero di muoversi e improvvisare sui suoi stessi brani, ormai divenuti scritti e “riproducibili”. 

Dopo aver ascoltato e vissuto sulla propria pelle la carica energica di Mats Gustafsson e i The End la sera prima, il pubblico viene catapultato in un’altra dimensione del jazz: suoni morbidi, mai aggressivi, in cui i vari timbri emergono uno alla volta per poi fondersi in un’unica entità sonora.
Una forma di jazz che − se pur colorata da qualche suono più innovativo − resta legata a un lirismo toccante e un gusto narrativo che unisce e alterna dolcezza, malinconia, ritmicità ed energia, rimanendo sempre ben calibrata. Nulla è eccessivo, tutto è in perfetto equilibrio con il resto: la melodia prevale con qualche influenza blues e la tromba di Fresu trasporta la mente degli spettatori in alcuni film degli anni ’50, per poi riportarli alla realtà con qualche tema più inquietante e “minaccioso”.

Paolo Silvestri – foto da cartella stampa TJF

Quasi come se ad oggi fosse un obbligo per apparire “al passo con i tempi”, Fresu utilizza effetti di distorsione del suono e di eco che lasciano nell’aria il ricordo di ciò che si è ascoltato. Cosciente probabilmente del fatto che le sue composizioni sono già ricche e complete semplicemente con i suoni acustici degli strumenti, il trombettista utilizza con parsimonia l’elettronica che non risulta mai essere preponderante. Non utilizzare questi effetti non avrebbe tolto nulla all’esecuzione, probabilmente, invece, le avrebbe donato una maggiore aura “paradisiaca”, di “purezza” e leggerezza.  

Come bis il quintetto ha suonato “Sono andati?” dalla Bohème di Puccini – brano nostalgico e romantico – seguito da un brano di Alice Cooper, “Only Women Bleed” – il più energico della serata – nella versione jazz di Carmen McRae.

Un concerto che, anche se non ha avuto lo stesso successo di quello di Zorn (probabilmente perché la componente ritmica, che fa muovere il pubblico, è stata messa da parte per lasciare spazio al lirismo melodico), ha comunque concluso il festival mantenendo alto il livello artistico. 

Il pubblico si sta forse abituando a nuove sonorità? O forse il festival ha insegnato a comprendere quante forme e contaminazioni diverse di jazz esistono? Ora non ci resta che aspettare la prossima edizione 2025, che dopo il successo di quest’anno, speriamo non deluda le aspettative – ormai molto alte. 

A cura di Ottavia Salvadori

Standing ovation al TJF: l’energia di John Zorn

Un altro concerto sold out per il Torino Jazz Festival, che per la prima volta collabora con il secondo festival jazzistico della città: Jazz Is Dead. La partnership ha consentito di realizzare un concerto di altissimo profilo, invitando il 28 aprile 2024 sul palco dell’Auditorium Agnelli del Lingotto il sassofonista John Zorn: artista poliedrico e figura chiave nel panorama della musica contemporanea, abile nello spaziare tra diversi generi musicali dal jazz al rock passando per l’hardcore punk e la sperimentazione. Ad accompagnarlo è il New Masada Quartet, nuova incarnazione di una delle formazioni di Zorn che dal 1994 ha registrato numerosi album riunendo musicisti affini alla sensibilità artistica del sassofonista, il quale a Torino coordina e dirige in modo innovativo, divertente ed energico il gruppo.

Il concerto è stato un turbinio di energia fin dalle primissime note. Senza tentennamenti, Kenny Wollesen ha suonato la sua batteria con colpi decisi e ad alto volume, che hanno impresso ritmi ballabili generando un groove ipnotico al cui stimolo non si poteva che rispondere muovendo qualche dito, gamba e testa. A sostenere la base ritmico-armonica anche nei momenti più free, c’era il contrabbasso di Jorge Roeder. Sul palco anche Julian Lage, il più giovane del gruppo, alla chitarra elettrica per creare un dialogo melodico con il sax di Zorn. Nelle sezioni più contrappuntistiche Lage non è riuscito molto ad emergere sui suoni potenti ed energici dei tre veterani dello strumento.

New Masada Quartet – foto da cartella stampa TJF

Zorn, oltre a suonare in maniera impeccabile il suo sax passando da suoni stridenti avanguardistici a melodie della tradizione ebraica, ha diretto magistralmente i suoi compagni. Avendo perfettamente in mente il sound che voleva generare, con semplici ma espressivi gesti riusciva a tradurre il suo pensiero di movimento rendendolo comprensibile ai componenti dell’ensemble i quali, quasi telepaticamente, rispondevano dimostrando quanto il quartetto fosse affiatato. Oltre a dirigere gli attacchi e le uscite dei vari strumenti, Zorn ha controllato anche il modo esecutivo dei musicisti al fine di creare un particolare tipo di timbro o di ambiente sonoro. La libertà del quartetto è comunque intrinseca alla musica suonata; le soluzioni armoniche espressive e fantasiose erano frutto di un’improvvisazione ricca che mescolava diverse influenze di generi musicali in un equilibrio energico. 

Composizioni ritmico-melodiche venivano accostate, o mescolate, a brani più sperimentali in cui i suoni si moltiplicavano a dismisura sfruttando gli strumenti in tutte le loro potenzialità. Quasi come se si stesse ascoltando musica da un apparecchio elettronico che permette il controllo del volume, il quintetto ha modulato le intensità dei suoni creando dei passaggi dinamici fluidi o repentini con grandissima abilità.

Un concerto adrenalinico non solo per i musicisti ma anche per il pubblico che non è riuscito a trattenere l’entusiasmo: con una standing ovation la sala è esplosa in un lunghissimo applauso che non voleva lasciare nel silenzio la sala del Lingotto in cui ancora riverberavano i suoni del quintetto. 

A cura di Ottavia Salvadori

Un trio affiatato al TJF: Dave Holland Trio

Dopo due giorni di anteprima, inizia il programma più intenso della dodicesima edizione del Torino Jazz Festival con il primo dei diciassette concerti main: il 22 aprile sale sul palco del Teatro Alfieri il Dave Holland Trio, formato dallo stesso Dave Holland al contrabbasso, Eric Harland alla batteria e il sassofonista Jaleel Shaw – che sostituisce il chitarrista Kevin Eubanks.
Il trio apre le danze a una settimana intensa e ricca di eventi che avvicinano il pubblico ad un genere musicale mai uguale a sé stesso. 

Dave Holland, tra i maggiori protagonisti del jazz inglese, viene invitato nuovamente al Torino Jazz Festival dopo dieci anni dal concerto con Kenny Barron. Una città conosciuta dal grande contrabbassista sin dagli anni ’70 quando venne con il sassofonista Sam Rivers e un paese, l’Italia, che per Holland offre un panorama comunitario molto forte e ampio, che permette di raggiungere generazioni, luoghi e sensibilità diverse. Holland è musicista e compositore che incorpora in sé stili e territori musicali diversi: dalla collaborazione stabile con Miles Davis alle sperimentazioni con Chick Corea e Anthony Braxton fino ad arrivare a mescolare sonorità afroamericane con musiche arabe e flamenco.

Foto da cartella stampa TJF

«I am here with two wonderful musicians and really great people. We had so much fun on the road, not just on stage but off stage too» così esordisce Holland per presentare i due musicisti e amici che lo accompagnano in un viaggio di esplorazione sonora.

Harland è uno dei batteristi più ricercati nel panorama jazzistico; ha collaborato con diversi musicisti, tra cui Terence Blanchard e Charles Lloyd ottenendo tre nomination ai Grammy Awards. Sul palco i suoni creati da Harland e Holland formano un connubio ritmico-melodico che crea tensioni stimolanti. L’intesa dei due musicisti è visibilissima agli occhi e alle orecchie del pubblico: basso e batteria si inseguono e si intrecciano alla ricerca di ritmi ballabili che presto virano in atmosfere rasserenanti. Le dinamiche mutano in continuazione, e il duo è abilissimo nel passare da sonorità leggerissime, quasi impercepibili ad una densità sonora che risuona nella sala e nei corpi del pubblico.
Il batterista porta grande vitalità nella formazione. Si avverte chiaramente come senta la musica dentro di sé: le movenze del suo corpo e la sua mimica facciale mostrano una totale immersione nel gioco ritmico e melodico spingendolo, così, a creare mille sfumature e suoni al punto da sembrare di avere quattro mani e quattro piedi. 

A completare e arricchire il panorama sonoro sono le note di Jaleel Shaw, sassofonista vincitore nel 2008 del “Young Jazz Composer Award” e membro del World Saxophone Quartet. Con il suo sax Shaw colora la base ritmico-armonica di Holland e Harland creando un sound ricco di microvariazioni, ritmi asimmetrici e un continuo gioco tra i tre strumenti, che si legano in un contrappunto mai prevedibile.

Con un concerto di quasi due ore, senza soluzione di continuità, i tre musicisti hanno proposto al pubblico delle composizioni firmate da Holland e dal batterista Eric Harland che hanno lasciato ampio spazio a momenti di improvvisazione, mettendo in luce la capacità comunicativa del trio.

Per concludere la serata un momento più sperimentale, in cui Holland esplora le sonorità del suo strumento utilizzando l’archetto e il tallone dell’archetto come elementi percussivi sulle corde. 

Il pubblico entusiasta dell’esibizione e non stanco di ascoltare il trio, chiama a gran voce – tra applausi e fischi – un bis che conclude la serata mescolando jazz e blues in una composizione rilassata ma giocosa che rimanda alle sonorità tipiche dei jazz club.

A cura di Ottavia Salvadori

Presentata la 18ª edizione di MiTo Settembre Musica

«È difficile scrivere musica in un momento in cui ci sono tante incertezze e paure; la musica non può cambiare il mondo ma la funzione di un operatore culturale, come un festival, è di far riflettere, mettere in comunicazione e suggerire connessioni»

Con queste parole Giorgio Battistelli – nuovo direttore artistico del biennio 2024-2025 – apre la conferenza stampa del festival MiTo Settembre Musica, tenutasi il 27 marzo presso il museo Rai della radio e della televisione. Un festival che dal 6 al 22 settembre connette le città di Milano e Torino: storie urbane diverse che cercano dialogo e mescolano le loro identità. Uno dei temi è proprio quello dei “MOTI”: gioco di parole per trasformare MiTo in elemento provocatorio che muove le menti, le scuote e le porta alla riflessione. MiTo crea relazioni tra città e connette musica e vita quotidiana.

Il 6 settembre si inaugura a Torino la diciottesima edizione in Piazza San Carlo con la Nona Sinfonia di Beethoven eseguita da orchestra e coro del Teatro Regio. La rassegna continua poi con altri trentaquattro appuntamenti che mescolano musica contemporanea e musica classica in un programma ricco e differenziato tra le due città – come nelle prime edizioni – per creare un palcoscenico condiviso e permettere uno scambio di idee e creare relazioni. Cinque sono i filoni tematici su cui si sviluppa il cartellone. Quest’anno grande punto fermo della programmazione sono le orchestre, non poteva dunque mancare il format “Mitologie Orchestrali” che porta sui palchi alcune grandi formazioni come la Filarmonica della Scala, l’orchestra dell’Opéra de Lyon e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Nella sezione “Artistiche Imprese” Stefano Massini racconterà con due monologhi la storia di due aziende storiche di Milano e Torino.
Il rapporto con la contemporaneità, dice Battistelli, è spesso problematico ma con “Ascoltare con gli occhi” si vuole dimostrare che è possibile far convivere queste apparenti dissonanze attraverso una proposta di ascolto che transita verso l’aspetto visuale e immaginifico.
Entrambe le città hanno una grande storia calcistica; pertanto sembrava doveroso, a 75 anni dalla tragedia di Superga, omaggiare questo tipo di cultura con “Musica su due piedi”.  Un altro anniversario caratterizza il 2024, il centenario dalla morte di Puccini, e “Puccini, la musica, il mondo” vuole proprio rendere omaggio a questo grande operista con tredici incontri: anche Toni Servillo interverrà con una narrazione degli aspetti più intimi di Giacomo Puccini.

Sarà un festival intenso e vario, che guarda al presente, al passato e al futuro creando legami ma anche scuotendo gli animi.

Per maggiori informazioni cliccare qui

A cura di Ottavia Salvadori

La Tragédie De Carmen: un’opera attuale e imprevedibile

L’opera torna al Teatro Concordia di Venaria Reale grazie alla collaborazione con la Compagnia Lirica Tamagno: un’impresa fondata nel 1992 attiva nei territori piemontesi per portare in scena opere liriche di tradizione e diffondere la cultura musicale ad un pubblico popolare, privilegiando teatri i cui cartelloni non prevedono una programmazione operistica.

Tutti conoscono la celeberrima opéra-comique di Bizet, Carmen, ma pochi conoscono l’adattamento di Peter Brook: La tragédie de Carmen, un progetto radicale che ridimensionò la partitura originale in un atto unico per orchestra da camera, spogliandola delle scene corali. Brook non si limitò solo a questo, ma accelerò il ritmo del racconto adeguando il tempo musicale e esplorò gli intricati legami tra i quattro personaggi principali: Carmen, Don José, Micaela, Escamillo.

Foto di Lunasoft Video Produzioni

Dopo il debutto a Savigliano, va in scena al teatro Concordia quest’opera controversa, con la nuova edizione del Circuito Lirico Piemontese guidata alla regia da Alberto Barbi, attore e regista torinese con una
formazione artistica eterogenea che va dal teatro di parola al teatro fisico, dal circo al musical. Barbi propone un’opera che si rifà all’idea di spazio vuoto teorizzata da Brook: il palco è una scatola bianca, chiusa su tre pareti, dove recitazione e canto si uniscono per far emergere solo i personaggi e i loro drammi attraverso un mescolamento di parlato e canto. Accanto alle arie in francese dei quattro personaggi principali, vi sono – al posto dei recitativi – momenti di prosa parlata in italiano; personaggi come il tenente Zuniga e il taverniere Lillas Pastia si esprimono con semplici parole declamate.

Si apre il sipario, dieci rintocchi di un timpano solo, la scena deserta con un solitario tavolo posizionato in verticale al centro del palco; tutto contribuisce a creare un’atmosfera funerea. Accovacciata e nascosta dietro di esso, Carmen indossa vestiti neri, un velo scuro sul volto e tiene tra le mani le carte, simbolo del tragico destino che la vita le riserva ed elemento fondamentale per la rappresentazione della sua personalità. Da questo momento Carmen, donna emancipata e indipendente, non abbandonerà praticamente mai la scena. Personaggio affidato a Irene Molinari, mezzosoprano laureatosi al Conservatorio di S. Cecilia di Roma e vincitrice di concorsi nazionali e internazionali, con la sua potenza vocale incanta il pubblico grazie alla sua capacità di passare da un registro grave ad uno più acuto con grande versatilità.

Foto di Lunasoft Video Produzioni

La scena, spoglia di tutti quegli elementi considerati superficiali, presenta solo pochi oggetti: il tavolo, presente per tutto lo spettacolo e che assume diverse funzioni – come per esempio quella di prigione – e delle sedie che nel finale circondano Carmen e la imprigionano in un cerchio, simbolo del suo destino ormai segnato, e che rappresentano, forse, la solitudine nella quale ormai si trova; nessuno al suo fianco ma, a proscenio, la sua antagonista Micaela che sembra trasformarsi nello spirito di Carmen e non trova il coraggio di rivolgere lo sguardo verso il suo vero corpo. Altro elemento pregnante della scenografia sono le luci che virano dal blu al rosso passando per il verde: giochi di luci omogenee che talvolta creano ombre misteriose sulle pareti di grande effetto scenico.

Foto di Lunasoft Video Produzioni

Alcune scelte puntano ad attenuare il dinamismo che domina nell’opera di Bizet. L’habanera, una delle arie più famose dell’opera e che nella versione originale stimola grande fisicità, corporeità e imprevedibilità, viene trasformata da Barbi in una scena priva di danza e di movimento. I pochi gesti di Carmen appaiono rigidi e la scena immobile. Anche l’orchestra Bartolomeo Bruni, affidata al giovane Takahiro Maruyama, accoglie le novità proposte da Brook. I timbri si disgregano e i colori si disperdono nell’ambiente. Non solo, dunque, una scena priva di elementi decorativi ma anche l’ambiente sonoro viene spogliato e reso essenziale.

Brook decide di mettere in luce gli aspetti più crudi della vita e i conflitti tra i personaggi sacrificando, così, gli elementi più sensibili e romantici. L’aria “La fleur que tu m’avais jetée” viene, infatti, deliberatamente separata dal duetto tra José e Carmen per fare spazio ad una scena in cui emerge il lato più violento di José che uccide Zuniga e si scontra con Escamillo in una lotta posticcia a “colpi di navaja”.  L’atmosfera passionale del duetto viene pertanto bruscamente interrotta dal lato oscuro e cruento della storia. “La fleur”, ridotta ad una sola strofa, appare come un momento solitario: José solo in scena rivolge lo sguardo e il suo canto al pubblico. Carmen entra in scena in modo furtivo ma si mantiene a distanza per contemplare le parole proferite da José. Ignaro della presenza della sua amata, continua a cantare e, solo dopo la sua dichiarazione esplicita del suo amore con le parole “Carmen ti amo!”, si volta verso di lei come se avesse intuito la sua presenza. Perfino Micaela viene rappresentata come una donna a tratti violenta, che litiga con Carmen. Lei, donna spirituale che sin da subito dimostra la sua devozione nei confronti di un Dio, donna semplice portatrice del bacio materno a Don José, viene aizzata dalla donna seduttrice e passionale. Una lotta che diventa antitesi del finale: dopo l’uccisione di Carmen, Micaela piange disperata accanto ad un altarino. È proprio in questo momento che si tornano a sentire i rintocchi funebri del timpano che diventano eco di un viaggio umano che ha attraversato l’amore e la perdita portando lo spettatore a meditare sulle sfumature dell’animo e a riconoscere l’eterno divenire della vita.

Foto di Lunasoft Video Produzioni

Forse la regia, consapevole della complessità della storia, ha deciso di non inviare un messaggio univoco al pubblico, evitando di schierarsi esplicitamente dalla parte di Carmen o da quella di José. In questo spettacolo aperto a diverse interpretazioni, la storia di un femminicidio 800esco diventa specchio della tragica attualità nella quale ancora oggi siamo immersi.

A cura di Ottavia Salvadori

Maat Saxophone Quartet e le mille sfumature del sax

La Fondazione Renzo Giubergia e la De Sono nel corso degli anni sono riuscite a creare una solida famiglia che si impegna a dare un supporto ai talenti della scena musicale. 
La Fondazione Giubergia dal 2012 sostiene i giovani musicisti assegnando annualmente il Premio «Renzo Giubergia» a solisti e, dall’anno scorso, ad ensembles da camera: un premio in denaro ma il cui valore va ben oltre quello materiale, perché l’onore e il prestigio che vengono riconosciuti a questi giovani è ciò che lo rende speciale ed importante.

Con il 20 novembre 2023 si conclude anche quest’anno un intenso e appassionato lavoro che ha visto la commissione raccogliere novanta ore di musica, selezionare quattro gruppi che si sono sfidati in una diretta streaming e, infine, premiare presso il Conservatorio «Giuseppe Verdi» il vincitore di questo premio, ormai giunto alla sua decima edizione: il Maat Saxophone Quartet.

A inizio serata, la presidente della fondazione Paola Giubergia e il direttore artistico Andrea Malvano, annunciano le novità apportate durante l’anno: l’apertura di un sito della Fondazione che funge da archivio degli eventi passati e le nuove modalità di partecipazione al Premio. Da quest’anno il bando si estende anche a talenti internazionali under 26 permettendo alla Fondazione di ottenere credibilità anche fuori dall’Italia e consentendo a giovani – proprio come l’ensemble portoghese/olandese Maat Quartet – di aderire all’iniziativa.

Foto da ufficio stampa De Sono

Continua così la stagione 2023-24 della De Sono – dopo un grande concerto di apertura realizzato insieme a Lingotto Musica – con una collaborazione con la Fondazione Giubergia in un concerto più intimo che vede protagonista della scena una formazione quartettistica diversa da quella consueta: sassofono soprano, sassofono contralto, sassofono tenore e sassofono baritono.

Il Maat Quartet è un gruppo di giovani musicisti di origine portoghese il cui sodalizio nasce nel 2018 ad Amsterdam in seguito agli studi di sassofono al conservatorio. Ottengono sin da subito grandi riconoscimenti: nel 2018 vincono il prestigioso Prémio “Jovens Músicos” e nel 2022 il Dutch Classical Talent Award. L’ensemble ha una visione della propria produzione di ampio respiro: ha collaborato con una compagnia teatrale per la produzione di uno spettacolo per bambini e ha lavorato a stretto contatto con importanti compositori della scena contemporanea olandese come Nuno Lobo e Arnold Marinissen. 
Non stanco di perfezionare il proprio lavoro, il gruppo ancora oggi frequenta la NSKA (Accademia olandese del quartetto d’archi), dove lavora sul repertorio per quartetto d’archi con gli opportuni arrangiamenti.

Foto da ufficio stampa De Sono

Il giro del mondo in Sax, così viene intitolato da Andrea Malvano il concerto del 20 novembre. E cosa se non meglio di queste parole può raccontare ciò a cui il pubblico ha assistito durante la serata. Per la prima volta in Italia con questo concerto di premiazione, il gruppo ricorda quale è la poetica che sta alla base del loro lavoro: “mostrare tutto ciò che un quartetto di sassofoni può fare” utilizzando repertori che attraversano i secoli e tutti i territori del mondo.
Il programma ha toccato culture differenti: dall’operetta viennese al folk iraniano fino ad arrivare al fado portoghese. Dunque, un repertorio con il quale il pubblico – fedele e affezionato delle due associazioni – non è particolarmente avvezzo.

Sin dall’inizio, con il primo brano, si capisce quali sono le sonorità più classiche che l’ensemble vuole approfondire. Con un arrangiamento per sassofoni, realizzato dal sassofonista soprano Daniel Ferreira, portano in scena l’Overture dell’operetta Dichter und Bauer di Suppè. Sembra aprirsi sul palco una vera e propria scena teatrale, in un ambiente ottocentesco romantico attraverso una melodia lirica iniziale di grandissimo effetto espressivo, pieno di sentimento, che si unisce ad un leggero valzer aggraziato.
Con soli quattro ottoni, sono riusciti abilmente a creare suoni leggerissimi e, allo stesso tempo, una grande massa sonora portando lo spettatore ad immaginare una vera e propria orchestra sul palco. Il Maat Quartet dimostra come lo strumento sia capace di creare un timbro del tutto singolare a seconda dell’utilizzo che se ne fa. Complice di questa atmosfera suggestiva, sicuramente è la straordinaria sinergia e maestria del quartetto di amalgamare perfettamente le quattro voci.

Foto da ufficio stampa De Sono

Il Maat Quartet è riuscito a raccontare una storia attraverso ogni brano, materializzando diversi sentimenti ed emozioni, da quelle più allegre e festose a quelle più malinconiche e introverse, trasformando anche i silenzi in momenti pieni di significato. La profondità espressiva con la quale sono riusciti ad entrare in ogni singola nota ha fatto sì che il pubblico si immedesimasse e immaginasse veri e propri quadri scenici. 

Dall’Asia all’Europa, questo è il viaggio nel quale ci hanno trasportato con gli ultimi due brani. Con un lavoro originale, composto dal giovane amico e compositore iraniano Ramin Amin Tafreshie, emergono le sonorità più particolari e contemporanee che forse lasciano più interdetto quella parte del pubblico abituato solo a sonorità “classiche”. Con glissando e suoni instabili, in continuo movimento, sembra addirittura di non avere più sul palco quattro sassofoni ma gli strumenti tipici della cultura iraniana e curda, come il duduk. Anche con questo brano il quartetto dimostra la sua abilità e apertura nei confronti di tutte le sonorità possibili.

Ancora una volta, dunque, la commissione del Premio Giubergia non delude. Nonostante non tutti gli spettatori siano riusciti a cogliere la sensibilità e la bravura dei giovani sassofonisti, il concerto ha rivelato le numerose sfumature che la musica può assumere, confermando l’importanza della commistione di differenti culture.

A cura di Ottavia Salvadori

Grigory Sokolov: un inno alla musica sull’altare del Lingotto

Quando la musica trasforma la sala da concerto in un vero e proprio tempio, quasi sacro, gli elementi esibizionisti e l’esteriorità dei gesti diventano superflui. La musica diventa un flusso continuo, l’attenzione si concentra sui suoni precisamente eseguiti e calibrati in ogni singolo parametro portando così lo spettatore ad assumere un atteggiamento di completa devozione nei confronti di quello che succede sul palco.

Questo è proprio quanto accaduto all’auditorium Lingotto «Giovanni Agnelli»,l’8 novembre 2023 in una serata realizzata in collaborazione tra Lingotto Musica e Unione Musicale.
Ancora una volta la sala torna a vedere tutti i suoi posti a sedere occupati: i biglietti per il concerto del grande pianista Grigory Sokolov sono sold out.

Nel 1966, a soli sedici anni, Sokolov vince il Primo Premio al Concorso Internazionale Čajkovskij di Mosca guadagnandosi grande fama internazionale. Lo studio del pianoforte inizia, però, già all’età di cinque anni per poi procedere, due anni dopo, con l’ammissione al conservatorio di Leningrado. Consueto collaboratore di prestigiose orchestre come la Philharmonia Orchestra, decide di dedicarsi alla carriera solistica. Considerato uno dei più grandi pianisti di oggi, Sokolov è conosciuto per la sua totale devozione nei confronti della musica, per la sua grande attenzione – quasi maniacale – dei dettagli e per il suo repertorio che vede spaziare dalla polifonia medievale al repertorio classico-romantico fino ad arrivare al Novecento. Negli ultimi anni lascia però spazio a concerti cameristici incentrati su brani più intimi prediligendo compositori come Bach, Chopin, Beethoven, Mozart, Schubert.

Dalla pagina web di Lingotto Musica

Non una parola e non un gesto fuori posto, Sokolov sale sul palco e, dopo un inchino, senza alcun tentennamento appoggia le mani sulla tastiera del pianoforte e immediatamente dà avvio ad un programma bachiano senza soluzione di continuità che coinvolge il pubblico in un vero e proprio rito. Nessuna pausa e nessuna parola, solo la musica che diventa protagonista facendo quasi dimenticare che sul palco c’è un soggetto in carne ed ossa.

Le note fluiscono con scale veloci, trilli, cromatismi delicati che Sokolov riesce a rendere con una freddezza tecnica ed espressiva che dimostra perfettamente il suo approccio alla musica: rigore e un intenso studio dei brani. La sua tecnica e rigidità paradossalmente però riescono a trasmettere qualcosa al pubblico, che resta tutto il tempo con gli occhi fissi su di lui.
Gli accordi e le singole note acquistano vita propria grazie all’abilità di Sokolov di creare polifonie che sembrano modificare il timbro del pianoforte, trasformando anche i suoni più leggeri, delicati e impalpabili in sostanza consistente. La sua abilità nel modulare perfettamente l’intensità di ogni singola nota , di avere una precisissima sensibilità nella pressione dei tasti, dà vita ad un pianissimo di grandissimo effetto che sospende il fiato del pubblico.

Con il prosieguo della serata, Sokolov porta sul palco la Sonata n.13 e l’Adagio K540 di Mozart dimostrando la sua maestria nell’interpretazione della complessa struttura mozartiana. L’esecuzione ricca di dettagli e sfumature trasporta gli spettatori all’interno di un’intensa gamma di emozioni: come ipnotizzati o in uno stato di catarsi, si lasciano trasportare dalle note perfette eseguite dal pianista e diventano partecipi di un viaggio che si è trasformato in un’esperienza sempre più spirituale e profonda.

Dalla pagina web di Lingotto Musica

Per concludere Sokolov non ha deluso le aspettative del pubblico che attendeva con ansia di sapere quanti bis avrebbe riservato alla platea torinese. Sei piccole miniature poetiche, hanno visto come protagonisti tre compositori di epoche differenti: Rameau, Chopin e Rachmaninov. Il programma si è tinto di un’espressività e di sonorità inesplorate fino a quel momento. Forse più stanco e più libero dalla pressione di dover eseguire perfettamente ogni brano, ha messo da parte la perfezione tecnica per creare emozioni sempre più intense.

Anche le entrate e uscite di scena hanno contribuito a creare la sensazione di partecipare ad un rituale musicale. Il pianista attraverso pochi e semplici movimenti, sempre uguali, ha creato sul palco un ambiente teatrale ed ipnotico. Il suo corpo improvvisamente sembrava essere un automa che eseguiva alla perfezione ogni singolo ingresso e uscita di scena, persino la regolarità dei tempi era scandita con una precisione metronomica. 

Uno spettacolo dunque ricco di emozioni contrastanti, di silenzi devoti, ricco di dettagli curati che hanno contribuito alla realizzazione di un atto di preghiera nei confronti di compositori che ci hanno lasciato in eredità grandi opere.

A cura di Ottavia Salvadori

TJF 2023: Craig Taborn tra ripetizioni e sperimentazioni

Esistono musiche che ti proiettano in un mondo lontano, sconosciuto, e che ti fanno perdere il senso dell’orientamento. È quanto successo con Craig Taborn il 28 aprile 2023 al Torino Jazz Festival presso il Conservatorio «Verdi».

Pianista pluripremiato, Taborn ha debuttato professionalmente, ancora da studente, con il James Quartet. Da giovane inizia a suonare il pianoforte e il sintetizzatore, influenzato in particolare da un ambiente di musicisti che fanno dell’assenza di pregiudizi nei confronti degli stili la loro caratteristica principale.

Acclamato come uno dei pianisti più originali della sua generazione, è diventato un punto di riferimento per molti altri musicisti. La sua padronanza di tecniche di improvvisazione si unisce alla conoscenza jazzistica, alla sperimentazione elettronica, al rock e al soul. È proprio questo che gli permette di intrecciare mondi espressivi apparentemente molto distanti tra loro ma, allo stesso tempo, di introdurre in ciascuno di essi il suo stile distintivo.

Craig Taborn. Foto di Fabio Miglio

Unico elemento sul palcoscenico: un pianoforte. Niente sintetizzatori e niente musicisti accompagnatori. Utilizzando sequenze ripetitive e arpeggi di sapore minimalista, Taborn riesce a creare sonorità sorprendenti. Il pianoforte sembra trasformarsi in una grande orchestra o addirittura in un sintetizzatore elettronico ma non c’è nessun trucco e nessun pianoforte preparato: solo Taborn e il suo strumento.

Sfruttando sia l’acustica della sala del Conservatorio che le potenzialità del pianoforte, la musica di Taborn risuona per tutto il teatro: i suoni transitano dal registro grave a quello acuto, sono dapprima debolissimi, quasi impercettibili, e poi fortissimi. La potenza con la quale suona i tasti in alcuni momenti – aiutato dall’uso incalzante del pedale sustain – è in netto contrasto rispetto alla delicatezza di altri momenti nei quali, saltando da una nota all’altra, sembra non toccare nemmeno la tastiera.

La musica che ne risulta è densa acusticamente, ma caratterizzata da poche note reiterate che fungono da radici per creare percorsi che pian piano si espandono in strutture più grandi. La presenza di questi loop caratterizza tutto il concerto, immergendo il pubblico in un grande sogno. I brani inizialmente sono riservati, intimi, poi crescono di intensità fino ad esplodere in un momento di pura energia; a creare un ponte tra le diverse fasi del brano sono le cellule ritmiche o melodiche sulle quali Taborn si fissa.
La velocità di esecuzione di alcuni passaggi è straordinaria.

Craig Taborn e Stefano Zenni. Foto di Fiorenza Gherardi

Il pubblico, inizialmente un po’ disorientato, è esploso in un grandissimo applauso dopo aver richiesto un bis. L’ultimo brano è caratterizzato dagli stessi elementi dei precedenti ma allo stesso tempo si distingue da essi per la presenza di elementi più energici e di differenti sonorità: ogni cellula melodica dialoga con l’altra, e ciascuna sembra rappresentare un personaggio.

Dunque, ancora una volta, un grande successo per il Torino Jazz Festival. Anche questo concerto è andato velocemente sold out.

A cura di Ottavia Salvadori

TJF 2023: Hamid Drake omaggia Alice Coltrane

Per la seconda volta sul palco dell’Hiroshima Mon Amour per il Torino Jazz Festival, Hamid Drake si presenta con un omaggio ad Alice Coltrane, grande musicista americana del jazz spesso nascosta nell’ombra del compagno John Coltrane.
Per eliminare il senso di vuoto lasciato dalla morte del marito, Alice trova conforto nella musica e nella spiritualità. Convertitasi all’induismo, cambia il suo nome in Turiyasangitanda. “Turiya” deriva proprio dalla filosofia indù e denota lo stato supremo di coscienza pura. Esso è anche il nome del progetto portato in scena all’Hiroshima in una data, quella del 25 aprile, in cui un messaggio di pace, libertà e consapevolezza hanno un significato ancora più profondo.

«We are doing music of spirit and inspiration. Turiya represents the freedom of expression and freedom of consciousness. We are all Turiya, which is the highest state of consciousness». –

A dirlo è proprio Hamid Drake, uno dei più importanti batteristi del jazz contemporaneo. Con una carriera costellata da grandi collaborazioni, tra cui quella con Don Cherry, Drake è diventato un maestro nel fondere tra loro influenze musicali afro-cubane, indiane e africane. Oggi si esibisce con gruppi jazz europei suonando non solo la batteria ma anche il tamburo a cornice, le tabla e altre percussioni a mano.

Hamid Drake
Hamid Drake, foto dal profilo del Torino Jazz Festival

In “Turiya” spoken words, poesia, musica, gestualità, culture differenti e avanguardie si uniscono per creare uno spettacolo che va al di là di ogni limite, diventando un veicolo per comunicare una profonda spiritualità.
Sul palco c’è anche la danzatrice Ngoho Ange che, con la sua danza libera e la sua gestualità pronunciata cattura gli spettatori. Come impossessata da uno spirito (forse della stessa Alice Coltrane?), sembra quasi catapultarsi in uno stato di trance. Con i suoi movimenti ora fluidi, ora rigidi e scattanti, lo sguardo fisso e le espressioni facciali, Ange interiorizza i sentimenti espressi dalla musica e li proietta al di fuori del proprio corpo facendoli arrivare dritti al pubblico. Ad ogni gesto il corpo della danzatrice sembra prendere sempre di più consapevolezza della sua esistenza: sembrano esplicitare visivamente i contenuti musicali e mistici che hanno caratterizzato la vita di Alice Coltrane.
Ngoho Ange ha anche portato in scena la poesia attraverso un uso particolare della voce, sperimentando vari modi di emissione del suono a seconda della portata delle emozioni e del significato delle parole. È proprio qui che viene messo in risalto in grande ruolo che hanno avuto le avanguardie in questo progetto: il canto, che si riduce a pura declamazione enfatica, viene unito a versi emessi dall’apparato fonatorio, ricordando le sperimentazioni novecentesche di Luciano Berio. Elemento sostanziale di tutta questa performance è proprio il tema della ripetizione di parole, che restano incapsulate e immutate dal punto di vista letterale; anche la musica risulta costellata di cellule ritmiche ripetitive che permettono come di ricreare lo stato di estasi.

Ngoho Ange, foto dal profilo del Torino Jazz Festival

Pochi strumenti, ma differenti tra loro come l’organo Hammond, i sintetizzatori, la tromba, il contrabbasso, le tastiere e la batteria, riescono a creare una grande massa sonora che riempie lo spazio della sala. Per la maggior parte dello spettacolo è evidente il contrappunto tra la danza e la musica strumentale, ma anche tra gli strumenti stessi. Un vero e proprio concerto, nel senso letterale del termine: nonostante i suoni prodotti risultino indipendenti tra loro, la sonorità ricreata è uniforme. I musicisti sul palco si divertono, si scambiano sguardi complici e ballano. Assieme a loro il pubblico ondeggia sulle proprie gambe lasciandosi trasportare dal groove e dal ritmo della musica.

Ospite della serata Gianluca Petrella, fra i più apprezzati trombonisti a livello internazionale che ha collaborato con artisti di fama internazionale incidendo musica di diverso tipo, dalla sperimentazione al mainstream, dal jazz alla musica elettronica e techno. Petrella entra sul palco timidamente e dopo scherzi con Drake perché «He feels he is not dressed properly», sin dalla prima nota lascia tutti a bocca aperta. Integrato perfettamente nel gruppo la musica si fa sempre più energica e potente.

Il pubblico a gran voce, tra fischi e applausi, richiede un bis. Una lunga introduzione pianistica con lunghe scale ascendenti e discendenti, un po’orientali, fa da ponte per l’ingresso in scena degli altri strumentisti che cominciano a suonare note che poco a poco si discostano dalla melodia del piano. Inizialmente il brano risulta cantabile, poi l’ingresso della batteria dà energia, introducendo una pulsazione che richiama le sonorità del blues e quelle afro-cubane. La linea del piano talvolta sembra ricordare attraverso una piccola cellula melodica la canzone Sound of Silence di Simon & Garfunkel.
Ancora una volta al centro del brano la ripetizione, udibile sia nella voce di Ange che nella linea strumentale.

Unendo avanguardie e musica afroamericana, Turiya si è rivelato un miscuglio molto ben riuscito di jazz e blues, classicità e avanguardia energia e calma.

A cura di Ottavia Salvadori