Carlo Vistoli sceglie per il suo lavoro discografico 2020 di cantare l’Amore non in una prospettiva idealizzata, romantica, bensì in quella del tormento, della collera che consuma i sensi. Da questa angolatura, l’Amore è sempre un «dio della violenza». Preme sul cuore, costruisce labirinti di angoscia, meandri di pianti in cui si perde l’anima. Un lavoro che Vistoli interpreta insieme a Sezione Aurea –con il contributo del soprano Lucia Cortese- diretti da Filippo Pantieri al clavicembalo e all’organo, per l’etichetta Arcana. La voce di Vistoli, intrisa d’intenso lirismo, tocca le corde della sensibilità. In costante dialogo con gli strumenti, ponendosi abilmente al servizio totale di canto e testo. Parola e musica si compenetrano l’una nell’altra, armonizzando, ma sempre mantenendo la propria natura.
Una vocalità delicata, ma distinta sia dal canto femminile – del quale difatti non si propone l’emulazione – sia dalla tradizione dei castrati, alla quale si potrebbe pensare assimilando per agilità o tessiture. Il ruolo di controtenore ha piuttosto una sua storia autonoma e indipendente rispetto alle voci bianche, la cui estensione doveva avere inoltre qualcosa di sovrannaturale – causa l’operazione – tenendo insieme entrambe le componenti maschile e femminile. Quale controtenore, Vistoli mette in rilievo quella maschile nel registro medio-grave e di petto.
Accogliendo l’emotività e la psicologia dei suoi personaggi – prosciugati dal rifiuto d’amore – restituisce dignità al loro dolore. Nel progetto le scene e le arie appartengono al repertorio dell’opera veneziana seicentesco. Si apre con Gli amori di Apollo e Dafne di Francesco Cavalli. Apollo insegue con doni e lusinghe Dafne, ma invano. La musica è destata da un dolore. Accompagna il povero pianto di Apollo, che sgorga incessante di fronte alla metamorfosi. Ora non può più che baciare le foglie all’adorata pianta, le dolcissime sue radici. Rigato da lacrime profonde. Nell’Erismena Idraspe dispera. A terra il suo ritratto, che crede gettato per disprezzo da Aldimira (amante e sorella sconosciuta), in realtà caduto ad Erismena nel partire. L’ «incognita del sangue», il lungo penare e la minaccia di togliersi la vita. La musica sembra volerlo confortare, soccorrere le sue parole spezzate. A chiudere la triade «Che ti diss’io» della Didone. Cavalli guarda a Virgilio ma con una variazione sul finale, sostituendo il tragico suicidio di Didone con la sua amara resa a Iarba. Nell’aria il canto si fa supplichevole, e sospiroso.
Una tregua alle pene è la Sonata cromatica di Tarquinio Merula. Il clavicembalo restituisce un susseguirsi di note metalliche –in un quadro di natura, potrebbero essere rami nodosi e foglie che si intrecciano verso il cielo, dove è pace. «Amanti io vi so dire» di Benedetto Ferrari presenta una melodia ritmata. Svolta in vocalizzi tesi a cogliere la chiave interpretativa del brano. L’amore è una primavera che non dona mai rose senza le spine -s’inchiodano ai piedi. «Chi può mirar costei e poi non dire» di Laurenzi è angoscioso, sofferto e reso con adesione partecipata dal controtenore. Di diverso impatto è l’aria «Se ad un altro si sposa», tratta da La finta pazza di Sacrati. Apparentemente risoluto, Diomede vorrebbe non dolersi per un amore non ricambiato; vibrante di passione. «Tornate o cari baci» di Ceresini rappresenta una seconda pausa, prima di riprendere il Leitmotiv dell’eros contrastato con Monteverdi. Nell’Incoronazione di Poppea commuove la condizione di Ottone -Poppea lo nega per ambizione, sostenendo di essere soggetta a Nerone. Così impreca contro di lei, il pensiero sanguinario, ma subito maledice la lingua. Chiede perdono per la sua anima deforme; di resuscitare per morire ancora nell’amare disperato. Mutevolezza e fragilità che la voce di Vistoli è autenticamente in grado di cogliere; sottilmente le sfumature del pathos. Le successive «Ohimè ch’io cado» e «Sì dolce è ‘l tormento» riassumono efficacemente il tema conduttore. La delusione e il contrasto non vengono però espressi solamente attraverso i lamenti, ma sono anche trattati con più leggerezza. È il caso dell’Aria di Passacaglia: «Così mi disprezzate?» di Girolamo Frescobaldi –l’unica che non appartiene alla produzione veneziana. Ha i toni d’una burla quasi affettuosa.
In conclusione, un altro filo rosso che percorre il disco è il concetto di piega. Concetto non soltanto dominante nell’epoca di riferimento, ma ora da intendere in senso figurato: come le architetture e le forme barocche, i personaggi narrati sono piegati e ripiegati dalle loro sofferenze.