Un viaggio intergalattico annaffiato nella birra: il racconto del live all’Hiroshima Mon Amour
Per due ore di un venerdì fradicio di maggio l’Hiroshima Mon Amour è l’astronave di Lucio Corsi. Un pianoforte, una tastiera, chitarre, maracas, una valigetta di cuoio e due Tuborg pericolosamente in bilico sul bordo del palco: è un rebus ancora da svelare, il mondo live di questo alieno gentile mutaforma. Così lontano, così terrestre, italiano, toscano. E pure i suoi musicisti sembrano assolutamente fuori posto, assortiti in maniera bizzarra, nell’accezione più positiva del concetto.
Mentre scintillano i riflettori veloci nella sala Majakovskij, sembra di scorgere quell’Iggy Pop del ‘72, che si contorce a torso nudo, tutine attillate e scarponcini di vernice che pestano i cavi. Ma Lucio Corsi non gioca a fare la rockstar. È un alieno gentile, animalesco, timido, nascosto dietro i capelli lunghi e una spennellata di cerone. La sua verità è lì da qualche parte, tra una sensibilità musicale raffinata, dalle liriche, agli arrangiamenti, alle costruzioni armoniche. È avvolto da un candore inafferrabile, una purezza tutta da preservare, prima che rimanga incastrata tra le grinfie di qualche salotto Rai.
Corsi si lancia in lunghi assoli elettrici senza mai sfociare nel virtuosismo vuoto, sale e scende dal palco, cambia outfit, suona cover di Dalla e Battisti, legge poesie. Ma nonostante tutto, lo spettacolo non c’è. Non c’è spazio per il cabaret, le frasi trite da animali da palcoscenico: Corsi sul palco sembra che ci sia appena atterrato da chissà dove. Tra un pezzo e l’altro accorda le chitarre, non sa che dire, improvvisa qualche spiegazione impacciata priva di qualsiasi irritante snobismo pretenzioso. E chi non ha pensato ad un certo cantautorato indie italiano scagli la prima pietra.
Quello che rimane, sotto il cerone sciolto e le birre rovesciate sulla scaletta, è un solenne e totale rispetto per la musica, che è suonata, è vissuta, è costruita in studio con uno sforzo collettivo, è la reale protagonista del tutto. Ancora più di Lucio Corsi stesso, che non c’è dubbio eserciti un naturale fascino magnetico sul suo pubblico e sui suoi fan, ma che non si mette mai davanti alle sue canzoni. Che sia il delicato universo fiabesco di Bestiario musicale, la dolcezza di Cosa faremo da grandi? o il più maturo La gente che sogna, l’ultimo album uscito lo scorso 21 aprile, Corsi ti parla del vento, della luna, della ragazza trasparente, del ragazzo altalena, delle stelle e le navi spaziali; disegna quadri impressionisti intimi e lontani, con un occhio un po’ bambino, che osserva la vita e le cose del mondo scoprendole per la prima volta.
La canzone italiana riparta da Lucio Corsi, dalle sue astronavi giradisco, che suonano musica aliena che non è mai stata così reale, così umana.