Dopo “Aspettando Eurovision” prosegue il ciclo di incontri del cartellone di UniversoxEurovision con il convegno “Song Contest / Song Context Transmedia perspectives on Eurovision“, concentrandosi in quest’occasione sugli aspetti della performance, dell’estetica e della ricezione della manifestazione con riferimento alla specificità del medium televisivo.
I saluti istituzionali sono stati tenuti da Jacopo Tomatis (docente dell’Università degli Studi di Torino), Donato Pirovano (Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici) insieme a Carlos Tercero (Consigliere Culturale e scientifico dell’Ambasciata di Spagna in Italia) e Guido Rossi (Direttore Centro di Produzione RAI). Quest’ultimo ha sottolineato l’importanza di tale manifestazione dal respiro internazionale per la città di Torino che, al centro dell’attenzione mediatica, ha la possibilità di «scrollarsi questi brutti due anni».
TELE / #VISION Performance, aesthetics, reception
Il primo incontro, moderato da Luca Barra (Università di Bologna), ha visto dialogare Gianni Sibilla (Università Cattolica del Sacro Cuore), sulle forme della performance all’Eurovision Song Contest, Mari Pajala (University of Turku), che ha analizzato l’evoluzione dell’estetica televisiva dell’evento, Massimo Scaglioni e Stefano Guerini Rocco (Ce.R.T.A. – Università Cattolica del Sacro Cuore) che hanno confrontato le edizioni precedentemente svoltesi in Italia, ossia del 1965 e 1991, attraverso l’archivio RAI.
Sibilla, dopo aver identificato le coordinate entro cui si muove la manifestazione e le molteplici dimensioni che la sottendono – da quella musicale e mediale fino a quella politica e nazional-culturale – ha focalizzato il suo intervento sull’evoluzione delle performance attraverso le diverse edizioni dell’Eurovision, analizzando in particolare i costumi, le coreografie e gli spazi scenici.
Successivamente Pajala si è soffermata sulla specificità televisiva dell’evento, indagando le caratteristiche principali del medium e le sue trasformazioni. In un primo momento ha considerato come la televisione si sia orientata, dagli anni Ottanta ai giorni nostri, a ospitare sempre con maggiore frequenza format competitivi; in seconda battuta ha indagato l’influenza dei media digitali nella ridefinizione del mezzo.
Infine l’excursus di Scaglioni e Rocco ha fornito una panoramica storica sulla ricezione e sulla progettazione nostrana dell’evento confrontando le due edizioni italiane. La comparazione ha fatto emergere la differente connotazione delle due messe in scena, l’una adeguata allo standard europeo e l’altra fortemente connotata dall’identità e la tradizione italiana.
A cura di Andrea Agosto, Alessia Sabetta e Valentina Velardi
Imaginary #EUROPE – Identity, media, nations
Ad aprire il convegno sono stati Monica Sassatelli – docente presso l’Università di Bologna – e Franco Bianchini – tra i direttori associati del Center for Cultural Value con sede presso l’Università di Leeds – con quella che è stata la spiegazione dell’inno dell’Eurovision, il Te Deum di Marc-Antoine Charpentier: un inno che non ha parole, ma che riesce comunque a esprimere un senso di pace, di unione tra i Paesi, perché questo è l’obiettivo che si pone il contest. Una competizione non tra artisti, ma tra nazioni che possono mostrare attraverso la musica – e il testo – la propria cultura.
È proprio attraverso le parole, i suoni, gli strumenti utilizzati che viene fuori quello che è il cultural cosmopolitanism; secondo la professoressa Sassatelli: «La diversità è ricchezza, non è più qualcosa da nascondere».
A proseguire il discorso è stato Franco Bianchini, che ha colto il tema della diversità per sottolineare quanto si abbia sempre avuto uno sguardo rivolto verso “l’altro” all’interno del contesto di Eurovision. Non a caso, gli interpreti citati hanno portato canzoni che avevano un grande punto fondamentale al loro interno: la pace. Dalla vincitrice del ventiquattresimo Gran Premio Eurovisione della Canzone – Gerusalemme, 1979 – “Hallelujah” dei Milk and Honey in collaborazione con Gali Atari, alla più recente “Non mi avete fatto niente” – Lisbona, 2018 – dei cantautori Ermal Meta e Fabrizio Moro: brano dedicato all’attacco terroristico al Bataclan, ma anche messaggio di resilienza da parte dell’essere umano.
Passando la parola agli ospiti europei, il focus si è spostato sulla Spagna nel contesto di Eurovision, con la presentazione da parte di Eduardo Viñuela – docente all’Universidad de Oviedo – di un’analisi di come i video musicali (perlopiù spagnoli) siano stati utilizzati nel corso del tempo per veicolare messaggi diversi. In particolare, Viñuela ha fatto notare come il ruolo del media televisivo abbia veicolato anche politicamente una specifica identità; questo perché musica, performance, costumi, paesaggio esprimono un contesto ben determinato.
Si è potuto notare come nel 1960 l’esigenza principale fosse quella di mostrare la bellezza del paesaggio naturale, delle spiagge e del mare, e come invece solo dieci anni dopo sia diventato molto più importante mostrare il futuro, il “modern building”. Nonostante questa esigenza di ostentare agli altri paesi il proprio progresso – spiega Viñuela – la Spagna ha sempre vissuto in un «modern, but Spanish», perché è importante preservare l’identità nazionale. Che sia perché Eurovision è stato considerato come una competizione tra Paesi durante il desarrollismo?
Mantenendo l’attenzione sulla Spagna, il dibattito si è susseguito con l’intervento di Teresa Fraile, docente presso l’Universidad Complutense de Madrid. Importante qui è stata la riflessione su quanto effettivamente Eurovision abbia significato per la Spagna e quanto abbia permesso al Paese di aprirsi verso l’Europa durante la dittatura di Francisco Franco. Ruolo fondamentale lo hanno avuto i media spagnoli, in particolare televisione e cinema, che hanno permesso la conoscenza e l’apprezzamento di cantanti spagnoli che, pur non avendo vinto edizioni del contest, hanno potuto avviare una carriera nel mondo della musica ovviando a un sistema dittatoriale e censorio.
Rimanendo in tema estero, ma avvicinandosi molto all’Italia, Lucio Spaziante (docente presso l’Università di Bologna) ha incentrato il colloquio su una visione italiana differente rispetto al contest: quella della Repubblica di San Marino. Ufficialmente Serenissima Repubblica di San Marino, con una lunga storia di indipendenza e una forte inclinazione internazionale, questo Stato è – secondo quanto spiegato da Spaziante – maggiormente adatto rispetto all’Italia ad ospitare un contest di questo tipo. Lingua e territorio con chiaro riferimento alla penisola ma con delle strutture a sé stanti: cerca di guardare maggiormente all’Europa e per questo, dal 2011, San Marino inizia a costruire una propria identità musicale non più su base italiana, ma inglese, iniziando ad usare testi in lingua anglosassone e partecipando stabilmente da quell’anno.
Conquistando tre finali nel 2014, 2019 e 2021, San Marino ha spesso proposto anche interpreti e artisti di origini straniere, avvalorando il loro tentativo di aprirsi alla scena musicale europea. Da dicembre 2021 a febbraio 2022 si è tenuta la prima edizione di Una voce per San Marino, che ha portato a selezionare Achille Lauro come rappresentante del Paese all’Eurovision Song Contest 2022. L’argomento verrà ulteriormente approfondito all’interno dell’incontro di martedì 10 maggio in cui Alessandro Capicchioni (San Marino RTV, capodelegazione di San Marino a Eurovision) dialogherà con il giornalista Emanuele Lombardini.
In chiusura del convegno si è tenuto l’intervento di Dean Vuletic, docente presso l’Universität Wien che ha ripercorso le tappe della storia di Eurovision in Italia partendo dal talk show russo Ciao 2020. Attraverso una ricostruzione dettagliata e basata su uno studio d’archivio, Vuletic è stato in grado di delineare la funzione della European Broadcasting Union (EBU) e il suo piano di lavoro all’interno di un contesto di questo tipo. Scopo di Eurovision e della EBU era quello di creare un programma sperimentale da poter trasmettere in contemporanea e in più paesi in diretta. Al centro di questo sistema era la Svizzera – e non l’Italia – per diverse ragioni, tra cui: posizione migliore e perfettamente centrale tra Europa dell’Est e dell’Ovest, e la presenza diretta sul territorio svizzero della EBU.
Fin dal primo anno di attività, il 1956, Eurovision prende esempio dall’impostazione del Festival di Sanremo, aprendosi però maggiormente verso l’esterno, arrivando ad esempio a trasmettere anche in Australia.
A cura di Chiara Vecchiato
Ultra #VISION – Camp, queer, kitsch
Il terzo ed ultimo incontro della giornata ha visto Antonio Pizzo (Università di Torino) presiedere gli interventi tenuti da Serena Guarracino e Massimo Fusillo (Università dell’Aquila)sul lato fetish e queer dell’Eurovision, Fabio Cleto (Università di Bergamo) che ha riflettuto sulle problematiche delle identità camp, Silvia Vacirca (Università di Udine) che ha esplorato le stravaganze del kitsch nella moda e infine Karen Fricker (Brock University, Canada) e Peter Rehberg (Schwules Museum, Germany), che in video-collegamento hanno incentrato il loro intervento sulla presenza delle star fuori e sulla scena.
Ad aprire il discorso sono stati Serena Guarracino e Massimo Fusillo che hanno illustrato l’Eurovision dal punto di vista della comunità queer facendo riferimento alla performance di Conchita Wurst del 2014; o ancora a performance tendenti all’estetica fetish, in particolar modo al BDSM, prendendo in esempio i videoclip delle canzoni attualmente in gara “Stripper” per San Marino e “Sekret” per l’Albania.
Hanno poi lasciato il posto a Fabio Cleto che ha raccontato l’identità spettacolare basata sull’estetica del camp creatasi grazie al contest. Il camp celebra gli ultimi fornendo loro uno spazio ironico in cui possono riconoscersi; è stato analizzato il caso dell’Italia, dove Eurovision ha trasformato Sanremo in uno show camp (gli esempi citati vanno da Achille Lauro ai Maneskin passando per Orietta Berti e Ornella Vanoni). Il focus si è poi concentrato sull’ultima edizione del festival che si è tinta di varie tonalità di rosa –con Drusilla Foer, La Rappresentante di Lista, Achille Lauro, Orietta Berti, Donatella Rettore e Ditonellapiaga – che si sono rifatti a una estetica camp.
Sulla scia del camp, spesso definito erroneamente sinonimo del kitsch, ha preso la parola Silvia Vacirca, che ha parlato della svolta positiva del termine grazie all’industria della moda, la quale ha coniato il termine “nuovo kitsch” per indicare tutti gli artefatti costosi e teatrali non compresi dal pubblico.
Infine, Karen Fricker e Peter Rehberg hanno dialogato sulla differenza tra celebrità e star, affermando che nel caso dei concorrenti di Eurovision si tratta di celebrità: personalità provenienti dal nuovo sistema dei media che, nella maggior parte dei casi, gareggiano per i like. Solo in pochissime occasioni il contest ha creato delle vere e proprie star.
a cura di Alessia Sabetta
Immagine in evidenza: Nderim Kaceli