«T’ho visto: eri tu, –l’accusa di Quasimodo all’Uomo del mio tempo– con la tua scienza esatta, persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta»: è l’atto di dolore di quella menzogna («Andiamo ai campi») giunta sino a noi, che ha sostituito l’insegnamento del Cristo con la legge di Caino; coltivato la pietra e la fionda. Una riflessione che potrebbe prestarsi all’interpretazione implacabile di Riccardo Muti, che dirige Sinfonia n.13, op. 113, «Babij Yar» di Šostakóvič –con il basso Aleksej Tichomirov e Chicago Symphony Orchestra, per CSO Resound quest’anno. L’esecuzione massiccia contro la violenza di dimenticare, la mortificazione di negare, per una trasmutazione dei valori.
A Babij Yar, presso Kiev, prima non c’era un monumento che commemorasse l’eccidio del 29 e 30 settembre 1941. In quella gola sono stati trentaquattromila ebrei, che il potere ha eliminato. La politica della saturazione, un seppellimento che bruciasse le coscienze. Hanno cercato di rimuovere le prove storiche, e il luogo –in seguito divenuto «tomba grezza» per altre sessantamila (se non centomila, a seconda delle stime) vittime– ignorato. Una sistematicità agita dai nazisti, con l’appoggio dei suoi collaborazionisti ucraini, e, per ragioni di responsabilità politiche, allineata al negazionismo. Il poeta Evtušenko, nel 1961, è stato la denuncia del secolo ferito. La sua Babij Yar l’urgenza di dare voce a quella vita offesa; al passato incompreso. L’importanza di cogliere il discrimine tra ciò che possiamo conoscere e ciò che dobbiamo, ponendo il ruolo problematico del soggetto sociale; il patriottismo e la sua mistificazione; la resistenza e gli interessi comodi. Šostakóvič, collaborando con Evtušenko, raccoglie l’invito alla lotta, che mette in musica –ma sempre sabotato nella sua libertà di espressione; l’insabbiamento dell’onestà intellettuale, costretto a false dichiarazioni: «ho cessato di dare importanza alle mie parole, ma non ho mai scritto una sola nota che abbia mentito».
Queste le premesse nel progetto. Un documento-opera che, includendo le cinque poesie, distilla tutto l’orrore e l’enigma del male. L’assalto morale contro l’antisemitismo, in ogni sua manifestazione, e la privazione dello stalinismo. L’inizio processionale, l’intonazione dolorosa, gli echi funerei su cui si innesta il coro all’unisono, rafforzando l’imperativo drammatico dell’Adagio. Obbedisce ad uno stile solenne, arcaico. Il rintocco delle campane, regolare, è l’alta tragedia cui assistiamo. Nel racconto –che offre sensibilmente Tichomirov– i protagonisti sono tutti umiliati; l’immedesimazione immediata, con la capacità di penetrare il verso poetico, e il lirismo asciutto. Il colore scuro fortemente impressivo del timbro –approfondendone la psicologia, ce li restituisce visibilmente. Sono immagini spettrali, che richiamano i torti subiti, di cui sulle mani abbiamo le stimmate: «attraverso l’antico Egitto […]. Mi sembra di essere Dreyfus», ma un Dreyfus accecato con gli ombrellini, recita sul testo di Evtušenko. Una delle pagine più delicate dal diario di Anna Frank, nell’alloggio segreto: la primavera e la sua segregazione. «Arriva qualcuno», sussurra il coro. Poi le grida disperate: buttano giù la porta! La risposta del basso è esitante: «è il ghiaccio che si rompe». In questo punto Muti esaspera il tessuto orchestrale, in un climax sonoro, che assume proporzioni terribili. Percosse: sono le mani dell’orchestra, che conduce abilissima il suo direttore, e che si avventano sulla scena. Pieno sgomento –il passo dei soldati che poteva arrestarsi sul loro pianerottolo. Il massacro di Babij Yar, che non ha risparmiato nessuno, e che rende un dolore universale, partecipato.
Anatolij Kuznetsov, un testimone oculare, disse che i reparti ne ridevano, come stessero assistendo ad un numero da circo: ma un circo macabro, crepitante di sommersi. Il motivo circolare, rimodulato, sembrerebbe riversarsi nel movimento successivo. L’Allegretto, quindi, esplora un cambiamento di tonalità, lanciandosi all’ironia più stridula. Il tema musicale deriva dalla lirica L’addio dei Macpherson, facente parte delle Sei romanze, op.62. La figura beffarda dell’Umorismo, che zar, re e imperatori volevano comprare o impiccare: con Muti diviene un’allucinazione musicale, intorno ad uno stile retorico e leggero. Sottolinea la forma satirica e parodistica –a dispetto delle censure. Caricatura persino di sé stessa, gonfiata agilmente da Tichomirov e accompagnata dalla squillante Chicago Symphony, sembra di vederla sfilare, baldanzosa, nella parata orchestrale. Efficace, quindi, l’accostamento alternato dei registri tragico e comico, dove l’ensemble esibisce tutte le capacità della propria plasticità musicale. Segue Al grande magazzino (Adagio), espressamente cupo, evocando le difficoltà delle donne sovietiche, in fila nei negozi alimentari. È un omaggio alla pazienza, alla forza e alla loro grandezza. Paure (Largo) viene trascinato lugubre, mantenendo le sonorità nel registro grave. Il terrore folle, sotto il regime di Stalin, sembra non esserci più in Russia –il coro–, ma la costruzione dell’ambiguità melodica contraddirebbe il senso delle parole. Carriera (Allegretto finale) si annuncia liberatorio con i flauti aerei, poi sostenuto dalla linea pura degli archi e la celesta in chiusura. Il riferimento è autobiografico, e un canto a quanti manterranno fede al proprio pensiero politico: qui si avverte la più sincera e autentica adesione dei musicisti alla marcia cadenzata –per una Resistenza.
In conclusione, l’Arte di Muti si rivela precisamente il luogo di scaturigine della Verità –che profondamente ha saputo rendere ai motivi della Sinfonia di Šostakóvič, trovando il perfetto equilibrio in ciascuno dei suoi tempi. Uno sforzo eroico, nell’indagine instancabile e feroce di quel mysterium iniquitatis –che ha origine con Caino–, e si compie chiedendo la pietà umana.