«Per interessarsi a Satie – sosteneva Cage – bisogna cominciare non avendo interessi, accettare che un uomo sia un uomo, lasciar perdere le nostre illusioni sull’idea di ordine, di espressione dei sentimenti e tutti gli imbonimenti estetici di cui siamo gli eredi. Non si tratta di sapere se Satie è valido. Egli è indispensabile»: è l’ago della bilancia della sua vita artistica. Sapientemente Jay Gottlieb e Anne de Fornel (pianisti) interpretano questo pensiero nel loro disco rilasciato da Paraty.
Iconoclasta, antiaccademico e bizzarro Satie-personaggio. Il curioso comportamento, l’atteggiamento sarcastico, l’uomo strano e ironico. Pittoresca l’abitazione e i suoi collezionismi. Un mucchio scomposto di etichette che, sebbene ne inquadrino la particolarità, non sembrerebbero tuttavia riuscire a fissarne veramente la personalità. Per assurdo, si potrebbe tentare «gymnopedist» – come d’altronde lui stesso si definiva –, un termine intraducibile che in tutta la sua indeterminatezza e nel privilegio del nonsense racchiude la cifra dell’Arte di Satie. Il quale inoltre non si considerava un musicista, piuttosto un «fonometrico» (letteralmente il misuratore di suoni). Rappresentante di tutto e del suo contrario. È il compositore francese all’avanguardia del quale John Cage osserva il gusto per la provocazione, la ricerca, il cambiamento, proseguendoli con devozione. Si pensi alla musique d’ameublement – e, più recentemente, a Brian Eno con la ambient music –, perché addolcisse «il suono metallico dei coltelli e delle forchette», per citare il suo teorico. Si guardi allo sperimentalismo. Nella Piège de Méduse Satie inserisce foglietti e pezzetti di metallo fra le corde del pianoforte, che quindi diviene «preparato», alterandone il suono. Un gesto musicale compiuto intuitivamente; più consapevolmente ripreso da Cage, che si avvarrà di materiali di vario genere – chiodi, puntine, gomme, pezzi di legno e altri – nei suoi lavori. Questo gesto si collega alla teoria cageana per la quale dappertutto è suono; rumore che quando vorremmo ignorare ci disturba, ma se ascoltiamo ci affascina. L’operazione che compie è, in questi termini, rivoluzionaria.
Le sue parole trovano concretezza nelle Three dances pour deux pianos préparés, di cui il rumore è il movimento. La prima danza riproduce il meccanismo di un ingranaggio meccanico. Piccoli urti e avvitamenti. Il complesso è caotico e perfetto; le cui parti potrebbero sciogliersi all’interno di una scatola o nella testa. L’automatismo è rotto nella seconda danza. I morti congegni acquistano vitalità e via via si trasformano – tamburelli, che nell’attesa dell’iniziazione segnano il passaggio ad una dimensione primitiva. La terza ha la forma della liberazione. A compimento del rituale la religiosa danza degli elementi. Corpi animati, che fremono di vita. È in questo passaggio che si può scorgere il Cage Orientale, l’alchimia dei suoi studi e la filosofia. In un orizzonte antico anche il Socrate di Satie. Il dramma sinfonico in tre parti, per voce e orchestra – oppure pianoforte –, tratto dai dialoghi platonici. Spesso accomunato al filosofo greco, grazie a una certa somiglianza fisica, dai suoi allievi di composizione. In particolare modo dopo che il critico musicale Jean Poueigh ebbe pubblicato una stroncatura del balletto Parade. Satie inviò la risposta: «Signore, lei non è che un culo. Ma un culo senza musica» ! L’ingiustizia della condanna – la denuncia per la diffamazione che gli costò una settimana di carcere e l’esosa sanzione – salda il parallelismo con Socrate. Cage fece la trascrizione per due pianoforti dell’opera. Il carattere musicale ambiguo, intatto nei tre tempi. Il primo è il Portrait de Socrates, nel quale Alcibiade tesse l’elogio (Simposio). Il senso di sdoppiamento nella costruzione di note delicate, che improvvisi suoni aspri storcono. L’andamento insolito restituisce un ritratto increspato: un Socrate emblematico. Bords de l’Illissus è il secondo tempo, che vede il colloquio di Socrate e Fedro (Fedro). Il cromatismo più scuro e omogeneo nelle linee melodiche. Le disarmonie contribuiscono a creare come delle stonature, o invasioni sulle scale pianistiche. In chiusura la Mort de Socrates (Fedone) non trattata teatralmente, ma nel dolore immobile. Serenamente rassegnata – con qualche malinconica riserva che si esprime nelle accensioni. Una morte discreta, quasi Cage avesse voluto riprendere quel «Socrates blanc» di cui Satie aveva scritto ad un amico; la neutralità e l’astrattezza della quiete. Infine, Experiences no.1 pour deux pianos, nella quale Cage accoglie la semplicità modale di Satie, la rarefazione della sua musica. Il brano è composto di note fluide, poi interrotte. Non una semplice sospensione o pausa: la struttura assente; senso straniante. Ricominciamento e recisione.
Si può capire, quindi, perché Cage affermasse di non potere rinunciare a Satie: è l’eroe negativo, tragico e antiromantico che andava scrivendo «J’emmerde l’art», troppo incongruente, riluttante ed estraneo al Tempo per poter essere pienamente compreso dal suo.