Il festival MiTo di quest’anno ha ospitato a Torino il duo di pianisti Bruno Canino e Antonio Ballista, interpreti della Nona Sinfonia di Beethoven nella trascrizione per due pianoforti di Franz Liszt, in una sala del Conservatorio Giuseppe Verdi mezza vuota per ragioni note, e chi si trova a doverne scrivere una recensione non sa da dove cominciare. Quello che posso fare è limitarmi a suggerire delle impressioni personali.
È un’ovvietà, ma in questo caso è vera più del solito: l’ascolto di un’esecuzione del genere provoca sensazioni differenti a seconda del vissuto di ciascuno, dell’età, del modo di vedere il mondo. A me, per esempio, ha fatto un effetto simile a quei video dei concerti di Wilhelm Kempff girati negli anni Settanta, dove il pianista ottuagenario suona Beethoven o Schubert guardando lontano coi suoi piccoli occhi azzurri, mentre le mani si muovono sulla tastiera a distillare dal pianoforte ogni goccia di poesia, poco importa se con imprecisioni e note sbagliate qua e là. Vedere un interprete leggendario, che ha suonato tutto, incontrato tutti, visto Ferruccio Busoni e Neil Armstrong, perdersi ancora nelle sfere inattingibili della musica e lottare con le mani minacciate dal Parkinson che ogni tanto lo tradiscono, a uno come me, che del Novecento ha vissuto tre anni e per il quale l’Europa prima del 1914 è un mondo esotico tanto quanto la Thailandia di Apichatpong, provoca un’emozione che va al di là del – già sublime – risultato interpretativo. Ecco: anche Canino e Ballista, che insieme fanno 168 anni, hanno visto tutto e suonato tutto con i principali protagonisti del loro tempo, cioè la seconda metà del Novecento: Maderna, Boulez, Stockhausen, e via discorrendo. Anche loro sembrano suonare perdendosi in un mondo lontano (ma gli occhi, a differenza di Kempff, li tengono fissi sullo spartito) e paiono quasi noncuranti del fatto di trovarsi in una sala da concerto con un centinaio di persone che li ascoltano. Anche loro commettono qualche imprecisione, e anche le loro imprecisioni sono insignificanti davanti alla sincerità con cui suonano, all’amore che dimostrano per la Nona, e alla Storia di cui sono rappresentanti. Il momento più intenso, da questo punto di vista, è stato il terzo movimento. Un po’ meno celebre rispetto ai primi due, con la loro drammaticità, e al quarto, col suo percorso verso la Gioia, l’Adagio contiene invece quella giusta dose di ‘perdersi’ che si confaceva al tono della serata. C’è da dire che il terzo movimento è quello che suona meglio al pianoforte, perché intriso di un lirismo che il pianoforte, strumento centrale del Romanticismo, rivela addirittura come anticipatore di certi futuri abbandoni lirici brahmsiani. Normalmente la trascrizione di una partitura ha un doppio effetto: primo, fare la ‘radiografia’ della composizione, vederne le ossa e la struttura, eventualmente togliersi lo sfizio di provare a sentire come suona in una veste inusuale; secondo, far provare un po’ di nostalgia per l’organico originale. Infatti, come scrive Guido Barbieri nel programma di sala, parlando di Liszt: «in ognuna delle sue parafrasi, revisioni, rielaborazioni, ricostruzioni, rifacimenti (il suo catalogo ne conta più di trecento!) emerge costantemente il sottile rimpianto, a volte la vera e propria nostalgia per ciò che la trascrizione ha lasciato dietro di sé: l’opera originaria, sorgiva, primitiva». Questa nostalgia si avverte nei primi due movimenti e si acuisce nel quarto, dove il gioco della prima parte è proprio nel dialogo tra gruppi di strumenti e poi, nella seconda, nell’ausilio che la voce umana dà all’orchestra, primo caso nella storia della Sinfonia. Ma nel terzo i timbri, per quanto importanti, lo sono meno rispetto all’aura, all’atmosfera di calma e vagheggiamento che arriva dopo gli energici scontri dei movimenti precedenti, ed è un clima che al colore di due pianoforti, suonati da Canino e Ballista con questo spirito, si addice con un’appropriatezza sorprendente.