Il 27 novembre si è esibito a Torino Ivo Pogorelich, provocando nel più sabaudo di tutti i Conservatori un rimestìo di interesse per il grande evento, corredato di sala stracolma, facce note di critici e musicologi insigni e ingresso stipato di appassionati che tentavano di accaparrarsi un posto all’ultimo minuto. Il programma copriva tre secoli di storia della musica: il Settecento con la Suite Inglese n. 3 di Bach; l’Ottocento con la Sonata op. 22 di Beethoven, la Barcarolle e il Preludio in do diesis minore op. 45 di Chopin; il Novecento con Gaspard de la nuit di Ravel.
Premessa: un diffuso pregiudizio vuole che Pogorelich non sia più quello di una volta e che qualcosa nel suo modo di suonare non sia più lo stesso dopo la scomparsa della prima moglie. Prima sarebbe stato l’enfant terrible, il prodigio innovativo, il genio rivoluzionario dell’interpretazione, ora un signore distinto che riprende il pianoforte, con risultati alterni, dopo un lungo periodo di astinenza dalle sale di incisione e da concerto.
Ma quando comincia Bach ogni pregiudizio tace, perché il divo Ivo lo trasfigura con un tocco così vellutato e morbido, volutamente fuori stile rispetto all’originario suono secco del clavicembalo, da far parere il canto un sussurro in penombra, dolce, discreto. E così Beethoven, teso in linee di fraseggio mai spezzate, sempre composte e velate di malinconia aristocratica, come di una dignità recuperata dopo un grande dolore, con la mano sinistra che sfiora i tasti pudicamente, e la destra che lo arricchisce con fluenti cambi di dinamica in pianissimo, impercettibili e mozzafiato. Per farla breve, ero già al settimo cielo quando si sono accese le luci dell’intervallo e mi sono appostato al centro del foyer per carpire e riportare qualcosa dal chiacchiericcio di cotanto senno. «Meraviglioso, mai sentita una cosa simile» dicono a sinistra. «Insomma, c’erano dei momenti in cui non si capiva cosa stesse suonando» dicono a destra. Mi sono dunque arreso a malincuore allo scisma del pubblico interpretandolo con un banale ma sempreverde «capisco che una cosa del genere possa non piacere a tutti». C’è forse chi ama una maggiore limpidezza, un suono più brillante, un Bach più bachiano e un Beethoven più beethoveniano, o non so che cosa, probabilmente anche a ragion veduta. Eppure, se i brividi correvano lungo la schiena, perché reprimerli?
Meno entusiasmanti i due brani di Chopin, sempre affrontati con gli ingredienti di prima, chiaroscuri timbrici e delicatezza del fraseggio, ma qui l’effetto complessivo è stato di confusione ai limiti del respingente. Avrebbe forse giovato un suono appena più energico e nitido: la lettura decadente di Pogorelich ne sarebbe uscita davvero indimenticabile. Trionfo assoluto, invece, per Gaspard de la nuit, di cui il giovane Ivo aveva inciso una delle più belle edizioni. La sua storica interpretazione è maturata a un suono meno saturo, con meno contrasti, meno immediatamente riconducibile al lato fantasmagothic del Romanticismo, bensì più orientata, anche qui, verso un decadentismo a cui, tutto sommato, Ravel apparteneva, con sonorità riverberate nello spazio e frasi ultra dilatate nel tempo, quasi in disfacimento. Alla fine, pur con un pubblico diviso, Pogorelich è stato applaudito e richiamato più volte sul palco, com’è giusto che fosse. Ma in fondo, che ci si schieri tra i difensori o gli avversari (fieramente tra i primi, ma a chi importa?), ammetterete che quando un grande artista, acclamato e riconosciuto, decide di rimettersi in discussione, dando a un argomento una lettura totalmente originale che i più fedeli abbracceranno e i più critici rifiuteranno – come il caso, ad esempio, dell’ultimo Tarantino – è lì, nel seguire una via personale fregandosene dell’opinione di questo o di quello, che il grande artista si conferma tale.