La serata dedicata a Biennale College, che si è svolta il 6 ottobre al Teatro Piccolo Arsenale, ha segnato la conclusione del 63° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia.
Questa sezione, inaugurata nel 2013, rappresenta ormai da qualche anno un appuntamento fisso anche per il Settore Musica. Vengono eseguiti i quattro progetti selezionati ogni anno da una call internazionale rivolta a coppie di artisti, compositore e librettista, under 35. Il loro compito: valorizzare il mondo del teatro musicale da camera scrivendo un’operina low budget di circa venti minuti dal tema comico, surreale, fantastico e/o giocoso, per un organico strumentale che quest’anno comprende per la prima volta anche il live electronics. I lavori di Biennale College erano tutti mediamente interessanti ma un’operina in particolare si è imposta all’ascolto per la profondità della scrittura musicale e il coraggio con cui sono stati utilizzati tutti i materiali sonori ritenuti necessari alla drammaturgia e ad una precisa idea di musica: compresa la tonalità. Scelta che, considerato il contesto, può sembrare quasi una provocazione alla 4’33’’ di Cage. Si tratta di Trashmedy di Alessandro De Rosa (compositore) e Mimosa Campironi (librettista). Alessandro De Rosa ha studiato composizione con Boris Porena per poi diplomarsi in Olanda, al Conservatorio Reale dell’Aja. È autore con Ennio Morricone del libro Inseguendo quel suono – la mia musica, la mia vita, pubblicato nel 2016 da Mondadori Libri e oggi tradotto in diverse lingue. Abbiamo fatto una chiacchierata sulla musica contemporanea partendo dalla sua esperienza a Biennale College.
Secondo te questa edizione di Biennale Musica è riuscita a fare una “radiografia” obiettiva della produzione musicale di oggi?
Questo certamente no. Credo sia impossibile riassumere il presente musicale in un’unica manifestazione. Quella presentata al festival è un tipo di contemporaneità dove secondo me a volte permangono ancora certi atteggiamenti che erano moderni forse negli anni Quaranta ma che a mio avviso oggi non riescono a incarnare la “modernità”. Premesso che ero piuttosto impegnato sulle prove del mio lavoro e che quindi non ho assistito a tutti i concerti, ho trovato lavori che mi hanno interessato e avvinto, e altri che mi hanno lasciato un punto di domanda. Talvolta mi è sembrato che l’esercizio di stile non bastasse da solo, che servisse altro. Credo che non bastino l’effetto shock che provocavano alcuni linguaggi nel passato o la stimolazione del solo intelletto. Forse bisogna recuperare il coraggio di emozionarsi ed emozionare. Sì, in quei giorni ho pensato spesso che con la disaffezione che c’è oggi per la musica contemporanea Biennale Musica debba puntare di più sulla musica, e offrire un’esperienza sonora talmente forte che non te la scordi più nella vita.
Per puntare sull’emozione si può fare a meno della tonalità o comunque della consonanza?
Secondo me si può emozionare benissimo senza la tonalità: il Wozzeck di Berg non si può dire che sia una musica poco emozionante! Togliere i suoni dalla loro funzionalità armonica non implica una rinuncia all’emozione, dipende sempre da quali siano le intenzioni di chi scrive e dalla sensibilità di chi ascolta. Il punto è che oggi, in ogni ambito, mi sembra si viva molto nel pudore delle emozioni. Nelle serie più toccanti di Amazon e Netflix la musica è uno sfondo sonoro molto elaborato ma non ha più la funzione che aveva nei film di Leone o Hitchcock. Spesso quando mi trovo a fare conferenze su Morricone ai ragazzi vedo che trovano l’emozione quasi come un qualcosa di kitsch, come un dato già assodato da cui prendere le distanze. Per quanto sia più facile emozionare un maggior numero di persone con la tonalità, perché ha una tradizione più antica, non è necessariamente quella la causa.
Il linguaggio che hai usato per questa operina è molto distante dalle costanti di fondo che accomunano la maggior parte delle musiche proposte dalla Biennale…
Il mio progetto era sicuramente molto diverso da tutto il resto. Ma, se andiamo a vedere, anche Tredici secondi di Marco Benetti e Fabrizio Funari andava in una direzione dove il parametro modale/tonale/melodico era protagonista, anche se lì era terreno della parodia. Così come in Ab Ovo di Talya Eliav e Liron Barchat che proponeva delle sonorità più vicine alla modalità. Sicuramente c’è un modo per essere cool alla Biennale e un modo per essere out,anche se nell’ambito delle quattro operine che abbiamo realizzato ognuno di noi è stato molto libero di fare ciò che voleva. Probabilmente fino a non molto tempo fa nessuno di questi progetti sarebbe stato accettato. Ma nonostante oggi ci sia più apertura rispetto al passato resta comunque la tendenza che se fai qualcosa di smaccatamente tonale, melodico, o con troppe consonanze, puoi essere additato come post-puccinista come è capitato a me.
Come è stata in generale questa tua esperienza a Biennale College?
È stata un’esperienza che mi ha restituito molto, nonostante i conflitti anche importanti che ho avuto soprattutto con il direttore d’orchestra [Matthieu Mantanus, ndr]. Non mi era mai successo ma questa volta sì. Purtroppo mi sono trovato nella situazione in cui, all’ultimo momento, mi è stato chiesto di fare dei compromessi piuttosto pesanti sulla musica (soprattutto elettronica) e che ho accettato solo per rispetto verso le altre persone che hanno lavorato al mio progetto (scenografa, regista, cantanti). Questo mi ha mosso però altre riflessioni: avevo forse scritto una musica molto emotiva ma anche molto fragile, quasi trasparente, che contrariamente a me ha accettato alcuni compromessi. Detto questo l’esecuzione non mi ha soddisfatto. Quello che avevo in mente era diverso: i piani erano piani, i forti erano forti, e i momenti di sincrono con l’elettronica dovevano rompere. Invece si è rotto il dialogo con il direttore…
La musica cosiddetta “colta” si è basata per diversi decenni su una ricerca forsennata del nuovo facendo a volte anche dei “voti di castità” su grammatiche e materiali sonori. Ma questa attenzione alla dimensione esteriore della musica non è forse un modo per aggirare il vero problema di fondo che è quello di avere delle cose da dire?
Sono perfettamente d’accordo. È difficile che quando cominci a serializzare tutto riesci a mantenere il gusto di inventare nota per nota, è un modo di procedere differente che crea un certo distacco non solo con il pubblico ma anche tra la musica e lo stesso compositore.
La “novità” è stata senza dubbio l’utopia di un certo tipo di musica del XX secolo ma se andiamo a vedere è una tendenza sempre presente nella storia dell’Occidente (musicale, tecnologico, scientifico, ecc), altrimenti non ci sarebbe stato un certo tipo di cambiamento. In India lo stile di alcune tradizioni si muove di un granellino ogni tremila anni perché il loro interesse è un altro. A me oggi della “novità” interessa poco: è un concetto scivoloso da inquadrare. Partire con l’idea di fare qualcosa di nuovo può essere un inciampo qualche volta. Io sono dell’idea di fare le cose nel modo più onesto possibile, con la mente e il cuore allineati secondo una certa intenzionalità.
Quest’utopia della novità infatti credo si regga molto sull’idea di tempo che abbiamo qui in Occidente: una freccia verso il progresso. Gli orientali invece lo vedono più come un cerchio o una spirale. La musica di oggi ha forse bisogno di cambiare prospettiva?
Secondo me sì, il “ritorno”, soprattutto quello illustrato dall’immagine della spirale, è una credenziale necessaria. Anche perché a furia di andare sempre avanti non abbiamo capito delle cose fondamentali su come siamo fatti. E non solo in musica. Prima di fare certe manipolazioni sulla natura ad esempio, bisognerebbe che l’umanità si interrogasse meglio sulle problematiche che troviamo nei grandi testi di tutte le tradizioni filosofiche e religiose. Domande a cui non c’è una risposta definitiva ma che aiutano sicuramente a intravedere delle costanti antropologiche utili per arrivare più preparati davanti a certe scelte. Per entrare nel mondo della ciclicità, dell’eterno ritorno, bisogna però sospendere un attimo i principi di identità e non contraddizione. Se accetti che una cosa possa essere e non-essere allo stesso tempo allora ti accorgi che è possibile “conservare cambiando”. Questo vale per la musica come per ogni cosa.
Ti piace la definizione di musica “classica contemporanea”?
No, non mi piace per niente. Il punto secondo me è un altro: esiste la musica scritta bene e la musica scritta male, la musica che arriva da un’intenzione giusta e quella che invece non arriva da un’intenzione giusta. Ma sono categorie talmente sottili e sfuggenti che è impossibile averle già determinate in partenza perché dipendono da chi la fa e, in gran parte, da chi ascolta. Fermarsi a “musica” mi dà molta più libertà.
A cura di Giacomo di Scala