Il sipario è aperto. L’orchestra, diretta dal Donato Renzetti, intona la famosa ouverture dell’opera, e con lo sviluppo della melodia la scenografia prende forma: agli occhi degli spettatori avviene il graduale innalzamento dello specchio, elemento scenico chiave della messinscena firmata da Henning Brockhaus (regia e luci) e Josef Svoboda (scene). L’allestimento, Premio Abbiati 1993, è anche conosciuto propriamente come “La traviata degli specchi”.
Siamo al secondo appuntamento della stagione 2018-2019 del Teatro Regio con la trilogia popolare di Verdi: La Traviata, dramma in tre atti basato su La Dame aux camélias di Dumas figlio, mette in scena la storia d’amore e la malattia di Violetta Valéry, prostituta legata alla mondanità parigina; per amore del giovane Alfredo, ella accetta la richiesta del padre Germont e sacrifica il suo sentimento e sé stessa allontanandosi dal suo amato. L’opera termina con la redenzione della ragazza per il suo sacrificio, poco prima della morte a causa della tisi.
Fin dalla prima scena è piacevole notare come la presenza del sovrastante elemento scenografico sia stata studiata e inserita pienamente nel linguaggio della rappresentazione, concorrendo con l’orchestra a dialogare con l’azione scenica: il senso di caos della scena di festa, che gravita intorno a Violetta opprimendola, è moltiplicato dal riflesso nello specchio. Oltre a duplicare, il riflesso è utile anche a dare una diversa prospettiva della scena e dei personaggi, mostrando inoltre la loro posizione in relazione ai “fondali” (ovvero ai tappeti posizionati nel centro della scena e resi visibili tramite il loro riflesso).
Il contesto dove viene presentata Violetta, caratterizzato dalla superficialità degli ambienti di festa parigini, crea una forte stretta attorno alla protagonista, che si presenta come “personaggio” (immagine della leggerezza morale): in scena, il soprano Maria Grazia Schiavo dimostra ottima tecnica vocale nel saper sostenere gorgheggi virtuosistici e abbandonare, con la sua trasformazione, il registro lirico in favore di uno più espressivo. La differenza tra i due registri, virtuosistico ed espressivo, è evidente nell’aria finale del primo atto, “Sempre libera”, dove la Schiavo dà prova delle sue doti di controllo belcantistico.
Al fianco della protagonista troviamo il giovane Alfredo Germont, portato in scena dal tenore ucraino Dmytro Popov: interpretando l’oggetto d’amore di Violetta, Popov risulta abile nel coniugare il ruolo narrativo del personaggio (motore fondante dell’azione) e la sua vocalità, risultando perfettamente idoneo ad accompagnare la protagonista durante la sua trasformazione.
Il secondo atto si apre in una situazione diametralmente opposta alla precedente, e questo senso di pace, che dona un respiro al pubblico e alla protagonista, viene interpretato dalla scenografia con luci e fondali semplici e aperti. La quiete di Violetta viene però presto minacciata dall’arrivo di Germont (interpretato da Giovanni Meoni), recante la richiesta di sacrificio e di separazione dall’amato: nel duetto, orchestra e regia collaborano nell’esibizione del marcato contrasto presentando le dure parole di Germont su una melodia antiquata, contro la purezza della nuova Violetta, che canta melodie espressive e dinamiche passeggiando su un prato fiorito.
La tensione emotiva, accumulata da Violetta nel confronto con il padre del suo amato, si sviluppa nelle scene successive e raggiunge il culmine nell’incontro con Alfredo, che porta la protagonista al grido d’amore “Amami Alfredo”: in quest’occasione la Schiavo mostra padronanza e consapevolezza del personaggio, eseguendo il finale della scena con sensibilità. Verso la conclusione del quadro, la scena è concentrata interamente sull’aria di Germont: l’elemento caratterizzante del “vecchio” ritorna, messo in evidenza dalle sonorità dell’orchestra e dalle scelte registiche (in scena Germont canta la sua aria passeggiando sopra vecchie foto, mostrate al pubblico tramite il riflesso dello specchio).
Il cambio di quadro ci riporta all’atmosfera di festa della Parigi ottocentesca; il clima mondano torna a gravitare su Violetta, con forza e violenza maggiore: ad opprimerla sono i due noti divertissement della moda spagnoleggiante (i “Mattatori” e il Coro delle “zingarelle”) e il senso di confusione e asimmetria, rafforzato dai movimenti coreografici degli ospiti, messi a nudo dalla “lente d’ingrandimento” scenografica (lo specchio). La tensione crescente si sviluppa nella scena della partita a carte, dove la carica emotiva dell’azione incontra i tempi orchestrarli di “Allegro” e “Allegro agitato”: il passaggio assai delicato dell’opera viene presentato in modo pulito, culminando nelle grida d’aiuto di Violetta in ritmo di valzer (“Pietà di me, gran dio!”). La componente scenica e l’accompagnamento orchestrale rafforzano il messaggio drammatico, rendendo evidente il parallelo simbolico tra i vari “giochi” (il gioco di carte mostrato sulla scena, ma anche Alfredo che gioca con i sentimenti di Violetta e la società di pregiudizi mondani che gioca con i due innamorati).
Il terzo atto rappresenta visualmente il significato della parola “Traviata”: il pavimento e la scena nuda sono accompagnati dalla luce angolare che illumina Violetta con un richiamo celestiale. La malattia di Violetta, come Tisi e pregiudizio sociale, contamina la scena intera, mostrando la protagonista inerme, pronta a compiere il sacrificio totale. Nelle indicazioni riportate sul libretto di Piave, Verdi chiede più volte alla sua Violetta di specchiarsi durante il dramma, ma nell’allestimento di Brockhaus-Svoboda questo gesto acquisisce un significato nuovo: nel momento supremo di grande intensità prossimo alla morte, “Prendi, quest’è l’immagine”, dove il passato, il presente e il futuro della traviata convergono attraverso la preghiera e la redenzione, l’espediente scenografico torna un’ultima volta protagonista, venendo issato ulteriormente per riflettere la società stessa che ha gravato su di lei (noi, il pubblico).
La Traviata di Brockhaus-Svoboda, diretta da Donato Renzetti, presenta così un’interpretazione dell’opera efficace e simbolica, lavorando sul dialogo tra i linguaggi scenici complementari (musicale, scenico, registico).
La recensione è a cura di Lukrecia Vila e Alessandro Petrillo